Capitolo II

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Fu un battito di ciglia. Un momento prima si trovava nella sua stanza e leggeva Moby Dick, e quello dopo era su un isolotto in mezzo a un lago. Arrivava appena a venti metri di lunghezza. Sembrava uno scherzo della natura. Eccetto una macchia verde, era tutto litorale.

Nathair si alzò e si ravviò i capelli. Tossì una, due, tre volte e strizzò gli occhi per colpa del sole. L'astro stava per sprofondare oltre una barriera di impervie montagne, ma rifulgeva ancora. La luce era tersa, incontaminata, e si estendeva sino ai punti più lontani che la vista di Nathair poteva raggiungere.

Nel centro dell'affioramento, un tronco tranciato a metà si innalzava come ultimo baluardo di vegetazione. Nathair ci andò vicino, si sedette e ci appoggiò la schiena. Per un attimo cercò di ricordare come era giunto in quel luogo. Niente. La memoria lo aveva abbandonato. Che codarda. Un po' come aveva fatto Hayleen, quando ancora Nathair era nella sua città. Lo aveva schiaffeggiato e se n'era andata. Aveva urlato: “Schifoso verme che non sei altro!”

E in effetti aveva ragione. Probabilmente farsi la sua migliore amica non era stata un'idea brillante. Ma non gli importava: dopotutto non sarebbe potuto stare con quell'oca per tutta la vita.

Un refolo gelido lo colse impreparato, e lui si strinse nella felpa. Cosa avrebbe detto chi lo avesse visto? Dei pantaloni del pigiama e una vecchissima felpa dei Green Day. Prima del conflitto nucleare erano stati una band sensazionale.

Le palpebre minacciarono di chiudersi. Nathair, però, le obbligò a restare aperte, e l'ululato di una fredda folata di vento collaborò a far sì che obbedissero. Era da trentadue ore che era sveglio e lui era uno di quei tipi che avevano bisogno di dormire regolarmente. Probabilmente l'aura da duro che emanava ogni volta che camminava, tradiva questa sua caratteristica. Ora non era il momento di addormentarsi. Da solo, sperduto nel bel mezzo di un lago... o di un grosso fiume? Si alzò e, una mano tesa nei pressi delle sopracciglia, schermò la luce. In effetti non ne vedeva il termine.

«Rag!» urlò qualcuno da lontano.

Una voce così forte e possente, che a Nathair sembrò si stesse increspando l'acqua.

«Oddio, e adesso questo che cazzo di lingua parla?» si chiese sottovoce.

Aggirò il tronco e vide una piccola imbarcazione a remi che navigava sulla superficie di... qualunque cosa fosse. Su di essa, in controluce, una figura stava in piedi. All'improvviso questa sussultò, si sedette, agguantò i remi e si diresse ad ampie bracciate verso l'isolotto. Il gelo aggredì ancora Nathair, che mise le mani a conca e se le portò davanti il viso. Nell'aspettare l'insperato salvatore, si scaldò i palmi soffiandoci sopra.

«Rag!» ripeté l'uomo.

Era arrivato a una cinquantina di metri dall'atollo, e ora si potevano distinguere la barba nera che gli foderava la mascella e la massa arruffata di capelli scuri che adombravano quasi più delle catene montuose a lato.

«Ma questo che diamine vuole?» si chiese Nathair. «Siamo sicuri che voglia salvarmi?»

«Uyač ta vijet, boan?» gridò il mastodontico essere umano.

La barca si arenò proprio davanti a Nathair, che scosse il capo per fargli intendere che non capiva le sue parole.

«Dynmia?» domandò lui; gli occhi neri e densi come la pece, apparentemente senza pupilla, scrutavano Nathair perplessi.

Questi scese dalla barchetta, che pareva ancora più piccola confrontata alla sua stazza, e gli studiò i vestiti. Nathair scosse il capo.

«Aruan? Livski? Tosmalik nilioye? Xeliak?»

Dark DawnWhere stories live. Discover now