Capitolo I° Destino

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Non ero mai stata speciale. O, almeno, nessuno mai mi aveva fatto sentire tale. I miei compagni, a scuola, mi schivavano, o, meglio, era come se non mi vedessero. Essere schivata sarebbe già stato qualcosa... Si schiva una cosa reale che si intravede sul tuo percorso, ma io mi ero sempre sentita, pressoché, invisibile ai miei coetanei. Una ragazza come tante altre, dagli occhi color ambra ed i capelli lunghi, lisci, castano scuro, dai riflessi ramati. Avevo preso il colore rosso dalla famiglia di mia madre, Emily Doyle, irlandese. Lei aveva i capelli come i miei. Aveva... Si... Li aveva tuttora, con qualche filo d'argento, qui e là, però.  Il mio nome è Angie Lynam."Angie.". Il nome di un angelo. Ho sempre creduto che fosse un nome fortunato. Ad una persona che porta il nome di un angelo, non dovrebbe mai accadere nulla di male. Né di sbagliato. Invece... Trovavo ogni cosa che mi era accaduta, così maledettamente ingiusta da non avere, ancora, la volontà e la rassegnazione per accettarla. Perché il destino, fra tante persone, aveva deciso di scegliere proprio me per il suo disegno? Eppure ero sempre stata brava a nascondermi bene... A confondermi fra la massa. Perché ero stata scelta io come vittima da quel destino? Continuavo a ripetermi la stessa frase, come se, a forza di ripeterlo più volte, mi avesse dato il coraggio di accettarlo: "I miei genitori non sono più con me". Facevo fatica ad ammetterlo e, sicuramente, non avrei potuto arrendermi tanto facilmente. Rifiutavo il fatto che la mia vita, ormai, sarebbe stata completamente diversa. "Biglietti,prego". Avvertii appena una voce provenire dal corridoio del treno, all'entrata del mio scompartimento. Un uomo basso e tarchiato mi si parò di fronte. Lo squadrai, interdetta, non avevo badato assolutamente a quello che aveva chiesto. " Si?". Farfugliai, interrogativamente. "Signorina, ha il biglietto, spero...".                                                                                                                                        " Ah. È per questo. Si, si, certo che ce l'ho.". Iniziai a frugare nelle tasche, poi nella borsa. "Perché fanno le borse così grandi? Ti ci puoi perdere dentro.". Lui, dimostrandosi, visibilmente, spazientito, sospirò: " Non ho tutto il tempo del mondo. Dovrei controllare anche gli altri passeggeri. Non viaggia solo lei, sa?".  "Si, immagino di si... Eppure lo avevo messo così bene, proprio per trovarlo subito, se qualcuno me lo avesse chiesto. Oh, eccolo! Era andato proprio in fondo, colato a picco.  Affondato con il resto dei relitti della mia borsa!". Accennando un sorriso imbarazzato, glielo porsi trionfante, come se avessi trovato il tesoro dei sette mari. " Bene. Era ora!". Apostrofò, seccato. Lo vidi allontanarsi, distrattamente, mentre tornavo ad immergermi nella mia occupazione di poco prima.  Di nuovo, ero fuori dal mondo, sola con me stessa. La mia penna continuava a scorrere via veloce, sui fogli bianchi, imprimendo solchi neri e sofferti, guidata da una mano invisibile, che andava ben oltre la mia volontà. Mi accorsi, d'un tratto, che, tra i fogli bianchi, imbrattati da me, senza senso, spiccava un foglio, che sembrava antico, color canapa, come un'ingiallita pergamena, su cui era apparso, come dal nulla, un simbolo: una spirale concentrica, dai bordi neri ingrossati, al cui interno, tra le anse contorte, si distinguevano delle spine più scure, che sembravano rincorrersi fra di loro. Non ricordavo di aver mai osservato nulla di simile, era la prima volta che vedevo quell'emblema ed ero sicura di aver preso tutti fogli bianchi dalla risma di carta, talmente nuova da essere ancora sigillata. Il simbolo era nero, dal tratto pesante, quasi a voler solcare il foglio, quasi a voler evadere dalla propria prigione di carta.  Pensai che fosse solo la raffigurazione del mio contorto stato d'animo, in quell'istante, ad avermi giocato un brutto tiro. Segni scuri di frasi sconnesse e scarabocchi, disordinati ed indecifrabili. Pensai che fossero solo i tratti delineati dalla mia immensa rabbia, dall'inesorabile senso d'impotenza e dal bruciante dolore, sentimenti talmente penosi da farmi scorgere qualcosa di irreale, forse talmente irreale da poter essere visto solo da me. Probabilmente nessun altro, riflettei, sarebbe stato in grado di distinguere quel foglio dal colore della sabbia di una vecchia clessidra. Qualcosa di potente, dentro di me, si opponeva, con forza, a tutto quello che sarebbe stata la mia nuova vita, da quel momento in poi. Non potevo tollerare che non avrei più potuto avere la mia famiglia con me. Sono figlia unica. Almeno questo. Era un pensiero che mi sollevava. Non avrei dovuto prendermi cura di nessuno, ora che non avevo né la voglia, né la forza di badare neanche a me stessa. Non avrei potuto, in quel momento, sostenere frasi del tipo: " Devi continuare a vivere, non mollare, fallo per...Ha bisogno del tuo coraggio... ". A quel punto della mia vita, io stessa non avevo l'energia per andare avanti, figuriamoci se avessi potuto sostenere qualcun altro. Avevo, invece, una gran voglia di lasciarmi andare... Di spegnere i miei pensieri. Mancava poco al mio compleanno. Il più importante di tutti, quello della maggiore età. Ma anche quello, più strano e triste perché sarebbe stato il primo a non essere festeggiato con i miei.  L'ingresso nella vita da adulta, segnato da grandi responsabilità. E me ne sarebbero arrivate di responsabilità... Troppe, per poterle sostenere tutte insieme.  Prima fra tutte, quella di vivere lontana dalla mia Londra e dalla mia casa, piena di ricordi. Mi venne in mente, allora, la mia camera, disordinatissima e stracolma, all'inverosimile, di libri, posters e cianfrusaglie di ogni tipo. Quante volte mia madre mi aveva detto di buttare via qualcosa ed io non le avevo mai dato retta, perché attribuivo, ad ogni cosa, un istante della mia vita... Un ricordo... Tutte cose troppo importanti per essere gettate via, lontano da me. Ho sempre pensato che gli oggetti fossero pezzi fondamentali della nostra esistenza e che di questa continuano a conservarne la vibrazione, positiva o negativa, che vive accanto a noi, nel ricordo, ed a noi trasmette, di nuovo, quell'energia, incurante di quanto tempo sia trascorso. Essi sono, semplicemente, tessere vive del grande mosaico, che compone la nostra vita. Sapevo che se non le avessi avute vicine, avrei finito, irrimediabilmente, per dimenticare i momenti e le persone che avevano lasciato un segno importante, in me. Tanti oggetti, anche senza valore, impolverati, sbiaditi dall'uso o rotti a causa di cadute accidentali e rincollati alla bene in meglio. Li avevo nominati, ufficialmente e formalmente, i miei  "oggetti da non gettare via per nessuna ragione al mondo ". Sarebbero stati loro a tenere viva la mia memoria. Inevitabilmente, il tempo, sbadato, avrebbe sfumato i contorni dei miei ricordi, fino a farli sparire del tutto. Non avrei voluto perdere neanche un minuto della mia storia. Mi era caro ogni momento. E tutto quello che era accaduto mi aveva dato ragione. Dopo quel terribile distacco, improvviso ed inaspettato, quanto mi sembrava importante ora, più che mai, quel braccialetto di plastica, regalato, durante una fiera, da mia madre, al suo " piccolo, grande angelo ". Quanto tenevo a quella pipa, di carta, costruita da me, quando ero ancora una bambina, per la festa del papà. Quanto, in quel momento, stringendoli, mi avevano fatto sentire meno sola. Non avrei mai permesso di dimenticare nulla del mio passato. Era stato un trauma perdere i miei genitori. Ed, allo stesso tempo, portavo i segni, feroci, dell' allontanamento, forzato, dalla nostra casa, dalla  loro casa. Era come averli persi una seconda volta. E lo smarrimento aumentava, come quando si volta pagina di uno libro stupendo, ancora non terminato e ci si trova di fronte un foglio non scritto, completamente bianco. Non volevo accettare di essere stata affidata alla zia Margie Lynam, inglese, sorella nubile di mio padre, che abitava in campagna, vicino ad un piccolo paese, sulle  bianche scogliere di Dover. Continuavo a pensare, mentre ascoltavo il rumore del treno sulle rotaie, che, progressivamente, rallentava, perché era quasi giunto a destinazione. Mi sentivo come se non fossi mai appartenuta a nessun luogo e a nessun tempo. Senza radici, senza futuro e, francamente, in quel momento, non mi importava granché nemmeno del presente. Non volevo far parte di quella vita. Non era quella la mia storia. La mia vera storia non era ancora stata scritta. Era come se non fossi mai nata. Come se fossi costretta a vivere vite, appartenute ad altri. Ricordi lontani... Odori o sapori che non appartenevano al mio tempo... Quanto odiavo stare lì! Odiavo anche l'immagine di quello che mi sarei dovuta aspettare d'ora in avanti! Mi preparai a prendere il bagaglio. Riunii i miei appunti, caotici e privi di senso.  Sospirai tra i denti stretti, mentre osservavo, attraverso lo sguardo velato dalle lacrime, che stentavo a trattenere, la figura, alta e snella di un ragazzo, che era uscito dal treno insieme a me. " Perché"- mi domandai- "il vento aveva soffiato così forte proprio nel momento in cui ero così vicina ai binari? ". Era come se non fosse stato un caso che, in quello stesso istante, anche quel ragazzo alto, con i capelli neri, arruffati dal vento, fosse sceso e si fosse chinato ad aiutarmi a raccogliere i miei fogli sparsi in terra. Mi accorsi che il suo sguardo si era soffermato sul simbolo dalle spirali nere, anzi, era come se lo stesse cercando, tra i fogli, per comprenderne appieno il significato. Mi sfuggì un commento, ma era come se parlassi più a me stessa, che a lui: "Prima non era così... Le volute della spirale erano molto più nere e marcate e c'erano delle spine... Ora, al loro posto, ci sono delle piccole ali bianche...".  Il ragazzo, tirò un sospiro di sollievo, come rincuorato, come se avesse scampato un terribile pericolo. Mi sorrise, limitandosi a fare eco alla mia riflessione: "Non era così...". Sussultai, ascoltando il fischio di un treno che passava ad altissima velocità, vicinissimo a noi. Se quel ragazzo non mi avesse aiutato, probabilmente sarei stata masticata e risputata dai binari di ferro di quella nebbiosa stazione di provincia. I nostri sguardi si erano appena sfiorati, di sfuggita, ma era come se ci conoscessimo da tempo. Le mani mi tremavano mentre traspariva il mio disagio di fronte a quel bellissimo viso, intravisto poco prima sulla carrozza. In fretta raccolsi tutto, disordinatamente. Quindi mi rialzai, evitai, accuratamente, di guardarlo, perché non avrei potuto leggere, nel suo sguardo, l'eloquente giudizio sulla mia stupida goffaggine. Mi vergognavo troppo della mia inettitudine. A testa bassa, mormorai un grazie. Feci appena in tempo a vedere il suo annuire, immerso nel suo sorriso, dolcissimo e rassicurante. Poi mi voltai di scatto, mordicchiandomi il labbro inferiore, dandogli le spalle, per la figuraccia fatta. Appena mi sentii sicura che lui si fosse allontanato, mi girai lentamente, e, mi misi a cercarlo, con gli occhi, tra la folla.  La sua altezza e le sue grandi, robuste, spalle non  passavano, di certo, inosservate. Continuai a fissarlo, ignorandone il motivo, ma non riuscivo a smettere di farlo.Stringendo, forte, i miei appunti, osservai la figura di quel ragazzo che se ne stava andando e che, probabilmente, non avrei più rivisto.  Iniziò a piovere. Una pioggia sottile, fredda. Avvertii il bisogno di fondere le mie lacrime con quelle che scendevano dal cielo, leggere. Chinai la fronte all'indietro come a voler baciare quell'acqua gelida. Come a voler lavare via i miei pensieri. Mi rimproveravo perché ero stata solo in grado di balbettare, timidamente, un grazie, senza cercare un modo per sapere qualcosa di più su di lui, qualcosa che mi avrebbe permesso, semplicemente, di rivederlo. Mi ero sempre nascosta alla vita, alle nuove opportunità e mi odiavo per questo. E mi nascosi, ancora una volta, sotto il mio baschetto, tirandolo ancora più giù, sugli occhi. Avevo, di nuovo, affidato la mia vita al destino, senza cercare di cambiarne il corso. Un destino bastardo, che non torna mai indietro e non ti dà mai un'altra possibilità. Come quella sera, quando avevo detto ai miei di non andare a quella festa, con la strada ghiacciata... Anche allora non ero stata molto decisa, né troppo convincente, oppure... Oppure, qualcuno aveva già decretato la loro fine...  E la mia. C'è qualcuno che decide per noi?  C'è un destino che sceglie il nostro cammino ? Mi diressi verso quella che sarebbe stata la mia casa, la mia nuova casa. La mia casa definitiva, non so per quanti mesi, anni... Ed ancora... Era il vento a tenermi compagnia. L'unico ad essermi ancora familiare, l'unico ad accarezzarmi come aveva fatto, non tanto tempo prima, mia madre... Ero sola. E questo mi terrorizzava. Non ero ancora pronta a spiccare il volo fuori dal nido, verso un cielo aperto, senza riparo. Non mi sentivo ancora così forte da poter arrancare, con  determinazione, lungo la spiaggia e tuffarmi in mare. Un mare sconosciuto... E pieno di insidie. Perché i miei coetanei non erano stati chiamati ad affrontare le mie stesse prove?  Perché io avrei dovuto crescere più in fretta di loro? Li osservavo, spensierati, ridere, mentre si rincorrevano, rubandosi i cappelli o i guanti o i libri... La vita può donare, a suo piacimento, gioie o dolori. Senza chiedere il tuo permesso o il tuo parere. Questa era la cosa che più mi faceva male e mi faceva impazzire: non potevo essere io ad avere il controllo su niente e su nessuno, dovevo solo soccombere.  Abituarmi ad una esistenza decisa non certo da me. A che cosa siamo destinati? Alcuni a storie banali, che nessuno mai ricorderà. Altri a vite subìte, vissute da altri, al posto loro. Altri ancora a solcare strade già note, già battute. Ma, alle volte, accade che, seguendo, comunque, vie già conosciute, si arrivi, tuttavia, a raggiungere vette inesplorate. Cime incontaminate e inviolate. E questo avviene perché non tutti gli stessi sentieri vengono percorsi nello stesso modo. Né tutti gli stessi sentieri conducono ad un'unica mèta. Ed io ero certa che il mio cammino mi avrebbe condotto verso qualcosa che nessun altro essere umano aveva mai visto. Qualcosa di assurdo... Qualcosa di strano... Non sapevo spiegarmi questa sensazione, ma, dentro di me, era ben chiara. Avrei guardato altrove, scrutando l'orizzonte in cerca di nuovi paesaggi e di nuove prospettive che mi facessero dimenticare il mio presente. Il mio vuoto e terribile presente.   



Dallo spazio delle illusioni: Vi è mai capitato di essere talmente invisibili da non suscitare interesse negli altri? Se questo vi è successo, potreste innamorarvi di Angie e seguirla passo passo. Credete, se lo merita. Nessuno mai l'ha fatta sentire speciale. Fatelo voi! :) Un abbraccio, commentate numerosi! 



Antiqua - Nihil est infinitum 1° libro della saga di "Antiqua"Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora