Quando Ledah si svegliò, la prima cosa che percepì fu la morbidezza delle lenzuola che lo avvolgevano. Schiuse prima un occhio e poi l'altro, infastidito dall'allegro raggio di sole che passava attraverso le imposte accostate. Sbatté le palpebre con crescente smarrimento, chiedendosi perché si trovasse in un comodo letto e non sulla fredda terra, quando una vocetta pimpante, seguita dallo sbattere improvviso di una porta, ruppero la quiete.
- Dai, alzati, oggi c'è la festa! -
A quel punto, l'elfo si ricordò che era da ormai cinque giorni che quella piccola peste della figlia del padrone di casa lo strappava al mondo dei sogni in quel modo ben poco gentile. Si girò verso la bambina, trovandosi faccia a faccia con un visino lentigginoso.
- Allora? Ti alzi o no? - gli chiese saltellando euforica.
- Melwen... che ore sono? - bofonchiò frastornato mentre si massaggiava le tempie, cercando di trattenere l'istinto omicida.
Non aveva mai amato particolarmente alzarsi presto al mattino, nemmeno quando era nel plotone d'élite degli arcieri, figuriamoci in quel momento.
Melwen si mordicchiò il labbro pensierosa, alternando il peso da una gamba all'altra: - Il sole è sorto da circa un paio d'ore, credo. -
- E quando sarebbe questa festa? - sibilò minaccioso.
- Ehm... verso l'ora di pranzo... più o meno. -
- Quindi, fammi capire, - si tirò su, appoggiandosi allo schienale del letto, - mi hai svegliato adesso per farmi andare a una festa che comincia tra quasi quattro ore?! -
Melwen grugnì, palesemente offesa dal tono irato con cui le si era rivolta.
- Non fare il principino! Stai usando il mio letto da quando sei nostro ospite, mentre io - si indicò, come se l'elfo non avesse ben capito con chi stesse parlando, - sì, esatto, io sto dormendo con la mia sorellina e ogni notte finisco sempre sul pavimento. -
Ledah dubitava fortemente che una bambina di tre anni potesse avere la forza di far cadere Melwen, che era tutto tranne che gracile e indifesa. Comunque aveva capito che in quel momento era inutile discutere con lei, o almeno non era negoziabile l'accompagnarla a quella stupida festa. E poi glielo aveva promesso.
Sospirò rassegnato, scostò le coperte e cominciò a vestirsi.
- Va bene, va bene. Mi alzo. Ma sappi che non andremo in piazza adesso. Ti ricordo che la pozione dura quattro ore, non tutto il giorno. -
- Va bene! - esclamò Melwen, felice, - Uhm... adesso che mi sono assicurata che manterrai la promessa, puoi tornare a dormire. -
L'elfo sgranò gli occhi e boccheggiò incredulo, ma Melwen era già corsa fuori dalla camera.
"Quella piccola peste... lo sa benissimo che a una certa ora sono vulnerabile. Va beh, finché non rischio di farmi linciare dai cittadini posso anche accontentarla."
Si alzò stiracchiandosi, facendo scrocchiare le ossa per recuperare le facoltà motorie.
Era giunto lì da all'incirca cinque giorni e ancora non si era abituato al modo di fare di quella pargoletta fin troppo vivace. Per quasi dieci anni aveva vissuto in completa solitudine, ascoltando e guardando da lontano la vita che le persone comuni conducevano, ma ora che il destino l'aveva catapultato in una realtà così simile a quella che aveva osservato si sentiva completamente stordito.
"Ho fatto per troppo tempo il lupo solitario."
Fissò il proprio riflesso nel piccolo specchio, posto sopra la cassapanca di legno, e si passò le mani fra i capelli per domare i ciuffi ribelli, sparati in ogni direzione.
"Così sembro più un lupo spelacchiato, però."
Scrutò con occhio critico la sua lunga coda mezza sfatta, prese il pettine dal cassetto e provò a dare una parvenza di ordine a quel cespo informe che aveva al posto dei capelli, cercando di districare i nodi senza farsi male.
"A proposito di lupi, ce n'è uno di cui mi devo occupare."
Durante i giorni precedenti aveva trascurato Raiza. Quando era giunto in prossimità di Luthien, per ovvie ragioni non aveva potuto portarlo con sé, nonostante le suppliche di Melwen. Era certo che non fosse scappato, ma temeva che qualche soldato lo potesse vedere. Qualora questo fosse accaduto si sarebbe immediatamente scatenata una caccia all'elfo, poiché era risaputo che i Lycos erano alleati con il popolo elfico, e lui sarebbe stato costretto a scappare prima di ricevere delle risposte. Inoltre, al momento non poteva perdere l'unica fonte di informazioni che aveva.
Ripose il pettine e si avviò alla porta, per poi scendere le scricchiolanti scale di legno. Non appena mise piede sul pianerottolo, un delizioso aroma speziato proveniente dalla cucina gli arrivò alle narici. Con l'acquolina in bocca entrò nella piccola stanza alla sua destra e la prima cosa che vide fu la schiena una donna alta e secca, intenta a tagliare un enorme pezzo di carne canticchiando un'allegra melodia. Quella, avendo percepito la sua presenza, si girò all'improvviso, ma sul viso le si dipinse subito un'espressione stranita, come se non riuscisse bene a capire chi avesse di fronte.
- Copernico, sei tu? - domandò assottigliando gli occhi e aggrottando le sopracciglia.
- No, Margharet. Sono Ledah. -
L'elfo si avvicinò al tavolo ricoperto di verdure tagliuzzate, probabilmente destinate ad una ricca minestra, e afferrò un piccolo paio di occhiali dalle lenti piuttosto spesse, che porse alla donna con un sorriso gentile. Margharet arrossì e si schiarì la gola.
- Scusami, è che quei cosi mi danno fastidio quando cucino. -
- Quindi hai intenzione di continuare a confondermi con tuo marito? -
Margharet rimuginò un attimo, si grattò il mento e poi annuì: - Hai ragione, farò più attenzione. Devi perdonarmi, ma non mi sono ancora abituata ad avere un ospite in casa. Ah, la colazione è sullo sgabello. - gli indicò una scodella piena di zuppa e un tozzo di pane nero.
- Grazie. -
Ledah prese la pagnotta e cominciò a mangiare, gustandosi il sapore della mollica ancora calda. Nel frattempo, si concesse di osservare Margharet. Non sapeva come, ma in un certo qual modo gli ricordava Aiwen: negli occhi scuri di quella donna ossuta rivedeva la sua stessa gentilezza, la medesima voglia di aiutare il prossimo. Tentò di immaginarsi come doveva essere sembrato agli altri il volto distrutto dal dolore di sua sorella, quando le era stato riportato il cadavere di suo marito Brandir, e rammentò il colorito cereo dell'amico, i capelli riccioluti incrostati del suo stesso sangue e gli occhi verdi del tutto privi di qualsiasi scintilla vitale.
Si passò una mano sulla faccia e scacciò il senso di oppressione che era tornato a gravargli sul petto. Improvvisamente la cucina divenne un luogo claustrofobico, tanto che non riuscì più a respirare. Posò la scodella con un gesto brusco, avvertendo l'estemporaneo bisogno di uscire, poi si alzò di scatto e andò alla porta sotto l'espressione allibita di Margharet. Non appena la spalancò, un intenso odore di terra bagnata e rugiada gli penetrò nelle narici. Inspirò a pieni polmoni e lentamente il cervello si svuotò da quei vecchi ricordi simili ad incubi, restituendogli la calma e la lucidità. Si guardò intorno, fissando le maestose querce che si ergevano a poca distanza da lui e segnavano un confine naturale tra Llanowar e il mondo degli umani, poi cominciò a camminare e si inoltrò nel sottobosco. I rumori della cittadina arrivavano attutiti e in poco tempo la vegetazione lo avvolse in un silenzio sacro, interrotto solo dallo sciabordio delle acque di un lontano torrente e dal leggero fruscio delle foglie. All'improvviso si sentì di nuovo a casa e un grande benessere gli scaldò il cuore. Percorse le scanalature della corteccia di un antico albero e lo accarezzò con riverenza, quasi fosse qualcosa di fragile. Poi chiuse gli occhi e posò la fronte contro di esso. Il respiro si regolarizzò e divenne un tutt'uno con l'albero, così pure i pensieri, i ricordi e le preoccupazioni scivolarono via, mentre al loro posto subentrava il battito della quercia. Quel ritmico pulsare invase le orecchie di Ledah e pian piano perse la cognizione di avere un corpo: le sue braccia divennero rami, i suoi capelli una folta chioma verde e le gambe affondarono nella terra fin nei suoi meandri.
- Avevi bisogno di pensare? -
Una voce che conosceva fin troppo bene lo riscosse. Si voltò e incrociò gli occhi indagatori di Raiza, poi inspirò profondamente e sciolse di malavoglia la simbiosi che aveva creato.
- No, desideravo soltanto rilassarmi, ma tu mi hai interrotto. -
Il Lycos lo ignorò e si avvicinò senza distogliere lo sguardo: - Manterrai la tua promessa? -
- Senti, ne abbiamo già parlato. Non posso svincolarti dal nostro patto finché non avremo fatto luce sul motivo per cui i demoni hanno assalito questa città. - sospirò stanco.
La bestia snudò le zanne e torreggiò su di lui minacciosa: - Cosa pensi che me ne importi, elfo? Gli umani sono nostri nemici, coloro che da più di cinquant'anni vessano e fanno a pezzi la mia specie. Ma forse per uno come te queste cose sono irrilevanti. -
- Cosa vuol dire "per uno come me"? - il tono di voce di Ledah si fece astioso.
- Beh, sai, nelle tue vene scorre sangue di Lich. Per te, magari, aiutare i mostri che hanno ucciso i tuoi fratelli è normale. - ringhiò.
- Taci, Raiza. Ho i miei motivi se ho accettato di aiutarli. - replicò seccato dopo un attimo di esitazione, in cui si era sforzato di ricacciare giù il moto d'ira che era montato in lui.
Il lupo stava per commentare, quando entrambi udirono dei passi alle loro spalle. Scorsero un uomo camminare svelto nella loro direzione facendosi largo nella boscaglia. Era avvolto da una pesante tunica violacea, stretta in vita da una complicata cintura con una fibbia argentea, che risplendeva sotto gli obliqui raggi del sole. Dei lunghi capelli neri come l'inchiostro gli ricadevano sulle larghe spalle e una leggera barbetta gli incorniciava un viso giovane e cordiale. Si fermò a pochi metri di distanza, scrutandoli divertito.
- Due buoni amici non dovrebbero mai litigare. - esordì, sorridendo benevolo.
L'elfo e il lupo gli puntarono addosso i loro occhi ostili e insieme esclamarono: - Amici a chi?! -
Senza perdere il sorriso, l'uomo agitò una mano davanti a sé, come per scacciare delle mosche fastidiose.
- Siete davvero incorreggibili, voi due. - sospirò scuotendo la testa, poi posò lo sguardo su Ledah, - Se non ti sbrighi, Melwen ti verrà a cercare per sapere che fine hai fatto. -
- Va bene, ora vado. -
- Raiza! -
La voce di Melwen li ghiacciò tutti sul posto e Raiza tremò appena. Non fecero in tempo a girarsi, che una bambina dai lunghi capelli biondi e la faccia lentigginosa saettò con la rapidità di un fulmine nel loro campo visivo, per poi saltare addosso al Lycos, che ringhiò di disappunto.
- Ti ho già detto che non sono un cane, piccola umana. -
Tentò di scrollarsela di dosso, ma la bambina non cedette. Un brivido di sadica soddisfazione percorse le membra di Ledah nell'assistere a tutti i vani tentativi del lupo di liberarsi di quella piccola zecca senza farle male. Avrebbe voluto rimanere lì a godersi lo spettacolo ancora per un po', ma l'uomo con il mantello viola gli fece cenno di seguirlo. Si addentrarono ancora nella vegetazione, lasciandosi alle spalle gli squittii di gioia di Melwen. In poco tempo il silenzio riavvolse la foresta. Camminarono per più di mezz'ora, senza che nessuno dei due proferisse parola. Alla fine si fermarono in una radura, ricoperta di margherite e fiori di campo.
- Cosa dovevi dirmi, Copernico? -
- Ho continuato con le ricerche che mi hai chiesto. - sospirò e si voltò verso di lui, improvvisamente serio, - Posso assicurarti che quella che ha distrutto quasi tutta Llanowar non è stata una comune magia esplosiva. -
Ledah si mostrò confuso: - Ne sei certo? -
- Sì, guarda qui. -
Copernico aprì un sacchettino di stoffa attaccato alla cintura e ne estrasse un pezzo di corteccia carbonizzato.
- Questo l'ho raccolto l'altro ieri. Come puoi vedere, è stato completamente bruciato nell'esplosione. Se non avessi visto con i miei occhi quello che è successo quel giorno, ti avrei detto che si tratta di una banalissima magia di fuoco d'alto livello. Però mi hai riferito che durante la battaglia è stato usato pure il Respiro del Drago, giusto? Può darsi che una seconda sostanza altrettanto letale ed altamente distruttiva si sia mischiata per caso al Respiro del Drago, generando un'onda mortifera. -
Ledah lo scrutò attentamente, poi disse: - Ma tu non ci credi. -
- No, per niente. Quando sono corso fuori di casa per vedere cosa stesse accadendo, sono stato accecato da una forte luce bianca. Ora, come tu ben sai, qualunque tipo di incantesimo che sprigioni luce è sempre collegato ad una magia bianca e magie bianche di tipo esplosivo non esistono. Avevo pensato ad un sortilegio purificatore, ma in questo caso gli alberi non sarebbero stati bruciati. -
L'elfo annuì, poi lo interrogò: - Quindi, quale sarebbe la tua idea? -
Copernico esitò prima di rispondere e lo scrutò con i suoi occhi viola velati di inquietudine: - Potrebbe essere stato un effetto a catena causato da qualcos'altro. È stato come quando si rompe un sigillo. Se c'era davvero un sigillo e se questo si è davvero rotto, allora potremmo spiegare l'immensa quantità di energia che è stata sprigionata, talmente potente da radere al suolo mezza Llanowar. Non so chi possa essere il colpevole, ma, se la mia ipotesi corrisponde al vero, è stato liberato qualcosa di oscuro. -
Rimasero in silenzio, ognuno assorto nei propri pensieri. Non era impossibile quello che Copernico aveva detto, però, stando alle informazioni in suo possesso, Ledah era più che convinto che a Llanowar non ci fosse altro che alberi e animali. Ad Alfheim erano conservate le reliquie e i cimeli dei vecchi re, ma avevano perso tutte le loro proprietà magiche da secoli ormai. Non aveva senso desiderare distruggerla, a che scopo poi?
- Potrebbero essere stati i demoni che abbiamo incontrato? -
- No, quelli erano dei piccoli predatori e non avrebbero avuto la forza sufficiente nemmeno per rompere la serratura di casa mia. Quando vieni qui nella foresta, comunque, cerca di fare attenzione: potrebbero tornare. -
Prima che Ledah potesse ribattere, Copernico gli batté una mano sulla spalla.
- Dai, ora andiamo. Tra poco sarà pronto il pranzo e dopo tu e Melwen andrete alla festa a divertirvi! -
L'elfo sfoggiò un'espressione costipata, come un condannato che si dirige al patibolo, provocando la risata dell'altro.
Tornarono indietro seguendo il sentiero e quando giunsero nelle vicinanze della casa il profumo di arrosto li invitò ad entrare. Si sedettero a tavola e Margharet offrì ad ognuno la sua porzione di agnello con contorno di polenta e verdure varie. Senza neanche aspettare, Melwen si gettò sul cibo, spazzolando la propria razione in men che non si dica, un po' per la fame e un po' perché era impaziente di uscire. Ledah avvertì i suoi occhi addosso per tutta la durata del pasto, ma continuò a mangiare con calma per ritardare il fatidico momento. Nel preciso istante in cui ingoiò l'ultimo boccone, la bambina saltò giù dalla sedia e lo prese per mano, strattonandolo verso la porta.
Però Copernico bloccò la loro avanzata: - Melwen, aspetta! Ledah deve prendere la pozione prima di uscire. Sai che gli elfi non sono ospiti graditi in città. Restate qui un attimo, vado a prenderla. -
- Sbrigati, papà! -
L'uomo corse lungo il corridoio ed entrò in una stanza che Ledah sapeva essere il suo studio, per poi tornare con una fiala con dentro un liquido trasparente, in tutto e per tutto simile ad acqua, che consegnò all'elfo.
- Tieni. Ricorda: quattro ore. Non un minuto di più, non uno di meno. -
Ledah la trangugiò in un sorso, ignorando il sapore amaro. In pochi attimi le sue orecchie lunghe si rimpicciolirono, assumendo la stessa forma rotonda di quelle di un comune essere umano.
- Tranquillo, papà, torneremo puntuali. - lo rassicurò Melwen sparendo attraverso la porta in un lampo, con appresso il suo povero accompagnatore.
La bambina era eccitatissima: era la prima volta che andava alla festa con un affascinante cavaliere come Ledah e non vedeva l'ora di presentarlo alle sue amiche, che di sicuro sarebbero morte d'invidia. Sghignazzò sotto i denti quando provò a figurarsi la faccia di quelle smorfiose. L'elfo la guardò interrogativo, completamente ignaro dei suoi piani diabolici.
Procedettero a passo di marcia, macerando in poco tempo le due miglia che li separavano dalle mura. In prossimità del ponte levatoio notarono che si era formata una piccola folla, che procedeva più o meno disordinatamente verso l'interno.
"No... no, ti prego, no..."
- Dai, uniamoci a loro! - lo spronò impaziente Melwen e lo trascinò in mezzo alla calca.
In un battito di ciglia Ledah si ritrovò strizzato al centro di quella moltitudine di persone. Le risate sguaiate miste a urla si fondevano in una cacofonia letale per le sue povere orecchie e gli facevano girare la testa, stordendolo ancor più di quanto già non fosse. Serrò convulsamente la mano della bambina e chiuse gli occhi, cercando di reprimere l'istinto di correre via. Solamente quando iniziarono ad avvicinarsi alle prime case la folla accennò a disperdersi. La festa non era neanche cominciata, ma Ledah si sentiva già esausto.
Le strade erano state adornate a festa e persino le viuzze minori erano piene di bancarelle che vendevano le merci più disparate. Ad ogni angolo era appeso lo stendardo della capitale: due ali dorate che circondavano una spada istoriata con l'effige di un lupo.
- Senti, ma cosa festeggiate di preciso? -
Melwen si fermò non appena udì la domanda, fissandolo nel medesimo modo in cui si fissa un idiota.
- Non sai cosa si festeggia?! -
"Perché dovrei sapere cosa festeggiate in questo buco di paese?"
- Se lo sapessi, non te lo avrei chiesto. - rispose con un sorriso tirato.
La bambina sospirò con aria da saputella: - Oggi è la festa di Seleneide, la dea dei boschi e del raccolto. Ieri, come hai visto, abbiamo pregato per ricevere l'abbondanza nella prossima primavera. Oggi, invece, ci si diverte! -
Prima che Ledah potesse domandare altro, venne tirato per un braccio verso una vecchia che vendeva biscotti al miele e frutta candita.
- Me ne compri una? -
- Tuo padre che dice? -
Melwen lo osservò di sottecchi, mentre un ghigno furbo le increspava le labbra: - Quando veniamo qui in paese, mi compra sempre qualcosa. -
- Non so se ho i soldi... -
Frugò nelle tasche e contro ogni previsione tastò la familiare freddezza metallica delle monete: Copernico pensava sempre a tutto. Ne porse una di rame alla vecchia, che in cambio diede loro un sacchetto di tela pieno di dolci.
Al banco vicino un cliente e un uomo piuttosto grasso stavano negoziando sul prezzo di un drappo di seta rosso sangue.
- Quaranta monete d'oro e non se ne parla più. -
- Certo, come no! Pensi che questo straccio valga così tanto? Se quella è seta di Eleuterya, tu sei magro! - gli urlò contro l'altro.
- Se hai le capacità di mercanteggiare pari a quelle di un topo, non è un mio problema! -
Ledah ridacchiò: in fin dei conti non era poi così diverso dalla vita che si conduceva ad Alfheim. Mentre passeggiavano, l'elfo ebbe modo di osservare gli umani che gli sfilavano accanto. Erano tutti vestiti bene, come si confaceva alle feste. Le ragazze giravano in coppia, ancheggiando davanti ai giovani che desideravano sedurre, mentre i bambini giocavano a rincorrersi, nascondendosi sotto le bancarelle o negli anfratti più improbabili. E tutti i loro volti erano sereni, distesi in sorrisi di pura felicità, come se la guerra non li riguardasse affatto.
Con le dita impiastricciate di zucchero, Melwen gli porse una mela candita. Ledah l'accettò volentieri, assaporando sulla lingua quel gusto estremamente dolce e succoso. Percorsero tutte le vie in lungo e in largo soffermandosi a guardare le merci esposte, finché non giunsero nella piazza principale. Dalla parte opposta un'orchestra si stava disponendo su un piccolo palco allestito con decorazioni sgargianti, mentre al centro si erano raggruppate un po' di persone, tutte con il viso coperto da una maschera.
Ledah si girò verso Melwen perplesso, in attesa di delucidazioni.
- Vedi, oggi si dice che sia il giorno più propizio per trovare il vero amore. Non appena inizierà la musica, tutti i ragazzi in piazza si metteranno a ballare con una fanciulla a caso, che poi diventerà la loro futura sposa! Non è romantico? -
"No, per niente."
- Beh, allora vai anche tu a ball... -
Non fece in tempo a finire, che un uomo dai lunghi baffoni scuri gli si parò davanti, porgendogli una maschera: - Balla con questa bellissima principessa, messere! Una moneta d'argento per due maschere. -
Ledah indietreggiò: - No, non mi interess... -
Dei singhiozzi lo ammutolirono. Quando si voltò, si scontrò con gli occhi di Melwen, che si erano riempiti di lacrime per la delusione.
- Quindi... non mi consideri abbastanza bella? - piagnucolò.
- N-no, non ho mai detto questo... - balbettò impacciato.
Il mercante incrociò le braccia al petto, battendo il piede a terra irritato. L'elfo osservò entrambi, poi con malagrazia prese la maschera e la indossò. Proprio allora una melodia romantica riempì l'aria, mescolandosi agli odori e al dolce profumo di zucchero e fiori.
Mentre veniva trascinato in mezzo alla piazza, per un momento gli parve di scorgere una folta chioma rossa. Aguzzò la vista e scorse una donna mascherata avvolta da una semplice tunica blu, che le stava aderente sul busto e più larga dai fianchi in giù, in maniera tale da mettere in risalto i seni sodi e le curve perfette. Pensò subito che fosse bellissima e man mano che avanzava, spintonato dalla folla, ne coglieva sempre più particolari: le gambe tornite e magre, il collo sottile e i capelli rossi come fiamme lunghi fin oltre metà schiena. Quando si soffermò sugli occhi della ragazza, il cuore di Ledah mancò un battito: erano di un verde intenso, eppure sembravano leggermente opachi, come se un velo li celasse e non permettesse loro di vedere nitidamente le cose. Quegli occhi potevano appartenere solo ad una persona, una persona che lui credeva lontana da lui mille miglia. Il suo nome gli scivolò fuori dalle labbra in un sussurro incredulo, senza che se ne accorgesse.
- Airis. -
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Fuoco nelle Tenebre
Fantasy[ Primo libro della trilogia 'Guardiani'.] Il suo corpo era luce, la emanava come una stella nella volta celeste, i capelli simili a lingue di fiamma. Ledah guardò quell'anima splendente, mentre si faceva strada tra i rovi e le spine. In quel luogo...