Capitolo 28

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Mi sveglio d'un tratto, disturbata da uno strano rumore. Il sedile balla sotto di me, ed io tento di guardare fuori dal finestrino, anche se vedo ben poco con Trevor davanti.
«Tranquilla, è solo una turbolenza», mi rassicura Trevor mentre mi prende una mano e la stringe con la sua.
Mi tengo al sedile con l'altra mano sul bracciolo, e di tanto in tanto, mi viene da trattenere il fiato.

Quando finalmente si calmano le acque, mi lascio andare in un sospiro liberatorio, socchiudendo gli occhi. E solo ora, dopo aver riaperto gli occhi, mi accorgo che Trevor mi sta ancora stringendo la mano. Mi prendo del tempo per osservare come la mia sia piccola abbastanza da essere contenuta nella sua, un po' più grande. Le nostre mani si adattano perfettamente, e mi piace credere che siano state create apposta per tenersi, stringersi, accarezzarsi.

Trevor si accorge che sto guardando un punto fisso, ma forse non ha capito che ciò che sto osservando, sono proprio le nostre mani.
«È tutto okay?», mi chiede mentre accenna un sorriso, e gli si formano due piccole fossette ai lati della bocca.
«Sì, è tutto okay», gli sorrido, annuendo e stringendo più forte la sua mano.

Le ultime ore del viaggio sono state un po' tutte così; turbolenze ogni diciassette/diciotto minuti. Sì, ho contato il tempo e non giudicatemi o ridete di me per questo, era l'unico passatempo che ho trovato!
Poi una signora ben vestita con la sua divisa da lavoro, è passata fra i sedili per chiedere ad ogni passeggero se volessero qualcosa da bere o da mangiare. Trevor ha preso qualcosa, io avevo lo stomaco chiuso e non sono riuscita a buttare giù neanche un boccone.

L'atterraggio è stato il momento peggiore, tremava tutto, tremavo io. Mi è venuta la nausea, tipo mal di mare, ma per fortuna sono riuscita a contenermi. Per l'ennesima volta, in quel momento, Trevor era accanto a me che mi stringeva la mano, che mi diceva che era tutto okay. E, per l'ennesima volta, io mi sono sentita meglio, meno sola, più tranquilla, con lui.

Una voce al microfono giunge alle mie orecchie; avvisa ai passeggeri che possiamo slacciare le cinture e scendere dall'aereo, e nel frattempo si aprono le porte. Uno ad uno, in fila indiana, lasciamo l'aereo, ed io resto dietro Trevor, attaccata al suo braccio, seguendolo ovunque lui si sposti. Poi, all'interno dell'aeroporto, mi fa sedere su una panchina, dicendomi di aspettarlo lì mentre lui va a recuperare i bagagli.
Colgo l'occasione per fare una chiamata. Cerco il numero di Laila in rubrica e mi affretto a chiamarla, ma dall'altro capo della linea una vocina mi informa che al momento il cliente è occupato in altra conversazione. Provo allora a chiamare Sarah, la quale invece mi risponde dopo pochi squilli: «Cleo!»

«Ehi», le dico, «siamo appena atterrati, Trevor è andato a recuperare le valige»
«Sei stanca? Come è andato il viaggio?», mi chiede con tono preoccupato.
«La verità? Sono tanto stanca, il viaggio verso la fine è stato pieno di turbolenze, ho ancora la nausea», rispondo, «e domani mattina ci sarà il funerale, non so quanto ancora potrò reggere.» Tiro un sospiro, guardando fuori dalla grande vetrata che mi sta accanto.
Fuori il cielo è grigio. Le nuvole coprono ogni pezzo di cielo, sembra che stia per venire giù un acquazzone. Speriamo che Trevor faccia presto.
«Cleo, devi stare tranquilla», ripete per l'ennesima volta già da prima che io partissi. «Riposa appena puoi, ti voglio bene.»
«Ti voglio bene anche io», le dico prima di salutarla e chiudere la chiamata.

Dopo poco che metto giù, vedo Trevor in lontananza. Porta il mio bagaglio a mano tirandolo dal manico, ed il suo borsone che tiene in spalla. Ha il capo chino e i capelli ricci che gli ricadono sulla fronte, con un'espressione tenera. Quando si avvicina, alza il viso e mi guarda, appoggiando il suo borsone sulla panchina, accanto a me.
«C'era un po' di casino, scusa il ritardo», mi dice.
Scuoto il capo e gli sorrido d'istinto, alzandomi ed avvicinandomi per abbracciarlo. Lui ricambia e mi stringe forte, la consolazione che trovo nelle sue braccia, insieme al calore, ogni volta mi mozza il fiato.

«Dovremmo chiamare un taxi», interrompe l'abbraccio dopo un po'. Io annuisco e mi sposto, tornando a sedermi sulla panchina mentre lui si avvicina alla finestra.
«Oppure», aggiungo prima che lui chiami il taxi, «possiamo farcela a piedi fino alla fermata in stazione».
La mia idea sembra folle, ma non ho voglia di aspettare il taxi in mezzo a tutta questa gente, ho bisogno di uscire da questo aeroporto, mi sembra di impazzire.

Dopo averci pensato, Trevor annuisce e si carica il borsone in spalla. Fa per prendere anche il mio bagaglio, ma io scuoto il capo e prendo la sua mano, così da non fargli portare un ulteriore peso. Incrocia le dita con le mie, ma io preferisco che lui mi copra le spalle con un braccio, stringendomi un po' di più a lui.

Lasciato l'aeroporto, iniziamo ad incamminarci silenziosamente. Nessuno dei due apre bocca, nessuno dei due osa per paura, forse, di dire la cosa sbagliata. Che se ci penso bene, non abbiamo mai avuto conversazioni che non fossero "non possiamo stare insieme", quindi la situazione si fa imbarazzante. Ripensandoci, sarebbe stato meglio se avessimo preso il taxi.
Sospiro ogni tanto, e ad ogni mio respiro, Trevor mi stringe più forte. Ogni tanto mi guarda, oppure mi posa un bacio sulla tempia, fra i capelli, ma non si sposta da me neanche di un centimetro. Ed io non penso di staccarmi da lui neanche per un nano secondo.

Sopra di noi il cielo si è fatto più grigio, minaccia di tirar giù un diluvio da qui a poco, e spero che prima che inizi a piovere, io e Trevor saremo già sulla metropolitana che ci porterà verso il centro di Londra.
Neanche a farlo apposta, un po' come si suol dire, parli del diavolo e spuntano le corna.
Sento un paio di goccioline cadermi fra i capelli, e subito guardo Trevor. Lui ricambia il mio sguardo, e in men che non si dica, un paio di goccioline si trasformano in un acquazzone.
Iniziamo a correre veloci, io trascinandomi dietro il mio bagaglio nella speranza che non si rompa, ma Trevor non è per niente di aiuto: «Bella idea la tua, quella di farcela a piedi».
Lo guardo male, ma lui mi sorride.

Allora mi fermo per un attimo, e Trevor si ferma con me. Lascio il mio bagaglio e lui fa cadere il suo borsone sul prato bagnato, e non ci importa se su di noi sta cadendo il diluvio, se i miei capelli lunghi sono fradici, o se i suoi ricci sono talmente zuppi, da attaccarsi alla sua fronte. Se ho i vestiti talmente bagnati, da sentirmi pesante il doppio, o se l'acqua cade talmente forte, da farci male sulle teste. Se la pioggia ci scivola addosso e porta via ogni pezzo di noi, se la pioggia ci scivola addosso e si accumula nelle nostre scarpe. Non ci importa di niente, perché almeno per una volta, ora lo so, bisogna fermarsi e chiedersi mi piace davvero quello che sto facendo?

Mi avvicino a Trevor in cerca delle sue labbra, sulle punte per arrivare al suo viso. Sentire di nuovo il suo sapore è come riprendere a respirare dopo una lunga apnea, giù negli abissi più profondi. Le sue braccia mi stringono forte contro il suo petto, quasi con la paura che io possa scappare. La sua lingua si fa strada nella mia bocca, e si unisce alla mia in una danza, seguendo il ritmo delle nostre labbra che si adattano perfettamente le une con le altre, non badando minimamente all'acqua che ci scorre lungo i visi pallidi e stanchi, lungo i corpi fragili e indifesi.
Ed ora che sono ferma a pensarci, questo, sì, mi piace.

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