Capitolo 17

4K 176 21
                                    


Lauren pov's

«Sei lesbica.»
Non dimenticherò mai il disgusto di mia madre nel pronunciare queste parole.
«Ti piacciono le donne, eh? Mi fai schifo, veramente schifo. Che vita di merda che hai. Vergognati, fai solo schifo.»
Ricordo ancora le lacrime che mi pungevano gli occhi e le pugnalate nello stomaco che ricevevo ad ogni insulto che usciva dalla sua bocca. Aveva appena visto me e Sam mentre ci scambiavamo il nostro primo bacio. Quello che mi aveva fatto realmente capire che avevo bisogno di una donna al mio fianco, non di un uomo.
Ricordo le urla e gli oggetti che mi lanciava dietro, e io rannicchiata in un angolo a piangere, pregando che smettesse. Era stato il mio piccolo eroe a salvarmi.
Non appena Christian era entrato nella stanza, mia madre si era bloccata di colpo. «Piccolo, cosa ci fai qui? Torna a giocare in salotto.» Aveva parlato con una calma troppo inquietante per essere vera. Per fortuna, il mio piccolo era rimasto fermo, imperterrito, aspettando che mia madre se ne andasse. Si era seduto accanto a me, dicendomi «Non piangere, Lau» con la voce tenera che solo un bambino può avere e gli occhi lucidi. Era rimasto lì a cullarmi finché non era tornato a casa mio padre.
«Lauren? Christian? Che è successo?» Mio padre guarda la scena ad occhi aperti: la stanza in completo disordine, tutto sparpagliato a terra, oggetti pesanti e appuntiti vicini a me e mio fratello. E io. Il mio viso è una maschera di lividi, un taglio mi percorre orizzontalmente la fronte ricoperto di sangue secco. Non mi sento più le ossa, mi sento sbriciolata, le braccia sono troppo pesanti per potermi tirare su da sola, le gambe non reggono. Il dolore mi attraversa tutto il corpo e l'unica cosa che riesco ancora a usare è la voce. «Papà.. Aiutami.» Riesco a dire, prima che i miei occhi si chiudano.
Mi svegliai in una stanza di ospedale. Al braccio avevo attaccata una flebo, che strappai via non appena ci posai sopra gli occhi. La ferita sulla fronte era stata pulita e medicata con i punti. Ma i lividi, quelli c'erano ancora. Erano pochi gli spazi in cui si vedeva ancora la pelle intatta. Sembrava che mi avessero appena gettato un sasso in pieno volto. Così mi sentivo. Schiacciata.
Due giorni dopo, quando tornai a casa dall'ospedale, mia madre non osò rivolgermi la parola. La sera, quando andai in bagno per lavarmi i denti, la trovai a terra. Il pavimento era ricoperto di sangue, sangue che proveniva dai suoi polsi, la lametta ancora in pugno. Iniziai a vedere sfocato tutto attorno a me, non mi capacitavo che mia madre si fosse suicidata per colpa mia. Urlai, urlai con quanto più fiato avevo in corpo. Mio fratello accorse per primo. Urlò anche lui alla vista del corpo di nostra madre ridotto in quello stato. I suoi occhi vuoti, di un'infanzia rovinata. Lo presi tra le braccia e lo cullai, cercando di rassicurarlo, che la mamma stava bene. Stava bene e non ci avrebbe lasciati.
L'ambulanza la portò via subito, dicendoci che sarebbero riuscita a salvarla. Purtroppo non fu così. Mia madre morì quella notte. Per colpa mia. Perché non mi accettava per ciò che ero, perché si sentiva responsabile di questo mio "difetto".
Ormai è passato più di un anno, ma la ferita è ancora aperta e credo che non riuscirò mai a chiuderla del tutto. Ho sulla coscienza la morte di una persona, di mia madre. Il dolore mi attanaglia ogni volta che ci ripenso, da quando mi sveglio al mattino a quando mi addormento la sera. E, molto spesso, anche nei miei incubi. La vedo suicidarsi di fronte a me, dicendomi ancora: «Fai schifo. Vergognati.» Mi sveglio coi sudori freddi e mio fratello accanto: anche lui non la smette di avere incubi sull'accaduto e non posso biasimarlo. È così piccolo. Dovrebbe essere felice, non provare il dolore della perdita della madre.

Finisco la quinta sigaretta di fila che ho fumato, seduta sul terrazzo di questo albergo, ripensando a mia madre. A quella donna che mi ha messo al mondo, mi ha amato più di chiunque altro. Fino a quando non ha saputo e ha deciso di farla finita. Non piango più, adesso quando ci ripenso sento solo una grande morsa stringersi attorno al mio stomaco. Il senso di colpa. Brutto stronzo.
Chiudo la portafinestra e mi siedo accanto alla mia Tess. Adoro guardarla mentre dorme. Sembra così spensierata, un piccolo angelo. Sono così felice per lei che i suoi l'abbiano accettata per ciò che è. Se lo merita. Tutti se lo meritano. Non augurerei a nessuno di provare ciò che ho provato io.
«Ma buongiorno. A che pensi?» chiede Tessa stiracchiandosi.
Scrollo le spalle. «Mah, niente. Penso quanto sarebbe bello perdermi ancora dentro di te.» Sorrido maliziosa e porto la mano sopra i suoi slip. Lei geme, riconoscente del gesto. Con il pollice le massaggio delicatamente il clitoride e le succhio un capezzolo. Sposto le dita sulla sua entrata ed entro in lei, dando piccole spinte. Quando sento che sta per venire lascio uscire le dita e lei mi guarda infuriata. «Sei una stronza!» protesta.
Ridacchio soddisfatta. «Puoi vendicarti.» Le prendo la mano e la trascino nel bagno.

Stare sotto il getto dell'acqua calda è rigenerante. Recupero le energie perse durante la notte e anche un po' di felicità. In fin dei conti, sto facendo la doccia con la mia ragazza super sexy.
Seguo ogni particolare del suo corpo con lo sguardo: le clavicole sporgenti, il seno piccolo ma perfetto, le braccia leggermente muscolose, i fianchi larghi, le fossette di Venere sulla schiena.
Tessa si copre con le mani. «Perché mi guardi così?» domanda imbarazzata.
«Sei così bella.» La appoggio al muro e mi abbasso fino alla sua intimità, usando la lingua sulla sua natura.

Dopo che entrambe siamo soddisfatte, usciamo dalla doccia e cominciamo ad asciugarci. Vado al comodino e alzo la cornetta del telefono. «Salve, è possibile ricevere la colazione in camera?» domando alla receptionist.
Una volta finita la chiamata torno in bagno ad asciugarmi i capelli.
«Oggi torniamo a casa?» chiede Tessa.
«Si. Piaciuta la sorpresa?»
Mi bacia dolcemente. «Assolutamente si!» afferma.
Sorrido compiaciuta.
Qualche minuto dopo, qualcuno bussa alla nostra porta.
«Sarà la cameriera con la colazione» dico a Tessa e vado ad aprire.
Quando la cameriera entra in camera sbarro gli occhi. Non è possibile.
«Salve, ecco la..» fa per dire, ma poi si blocca anche lei e rimane a fissarmi impietrita.
«Lauren? Tutto okay?» urla Tessa dal bagno, sopra il rumore del phon.
Sono troppo scioccata per risponderle. Sento distruggersi tutta la corazza costruita in questo anno. Mi sento nuda, vulnerabile, sotto lo sguardo della donna che è davanti a me. Non dovrebbe essere qui. Non dovrebbe essere da nessuna parte.
«Mamma?»

L'amore che cercavo ➳ lesbianDove le storie prendono vita. Scoprilo ora