The railroad

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Misi piede nello Stato del Wyoming nel 1866 e neanche me ne resi conto.

Attraversai infatti la linea immaginaria che lo separa dal Nebraska in uno stato di incoscienza, steso in una barella e portato a mano da due dei miei compagni di squadra. Costruire la ferrovia era un lavoro pericoloso e quella volta era toccato a me finire sotto i ferri del medico, bestemmiando e sputando sangue per un'esplosione fuori controllo.
Ne avevo visti morire tanti dei miei compagni, così: bastava una distrazione, o attardarsi un istante di troppo prima di allontanarsi dalla dinamite... E si saltava in aria in mille pezzi.
Ricordo che mentre mi trasportavano in infermeria — che poi era una tenda più grande delle altre, dove si respirava il tanfo della malattia e della morte — imprecavo contro l'incompetente che mi aveva quasi ammazzato e che ci aveva rimesso le penne.

«Stai buono, Walker!» aveva sbraitato Abraham, un ex-schiavo burbero e irascibile che con un po' di buona volontà potevo considerare un amico.
Abraham aveva la pelle scura segnata dalle cicatrici di innumerevoli frustrate e due occhi che scattavano da una parte all'altra alla ricerca di un possibile pericolo; era più vecchio di me, che avevo da poco compiuto trent'anni, e non mancava mai di farmelo notare. A unirci, due anni prima, non era stato il monotono picconare nelle gallerie, né le bottiglie di whiskey condivise la sera; eravamo vicini, io ed Abe, per ciò che avevamo passato durante la guerra civile.
Nel suo sguardo era ancora visibile l'umiliazione e la rabbia nei confronti dei suoi padroni, mentre io la notte sognavo i terribili momenti in cui mi ero procurato la cicatrice che attraversava la mia schiena.

Devo confessarlo: quando aprii gli occhi e sentii quel dolore lancinante passarmi da parte a parte, caddi in preda ad un terrore cieco: ero infatti sicuro che la ferita che già una volta mi aveva quasi portato alla morte si fosse riaperta quando l'esplosione mi aveva sbalzato indietro di diverse miglia e che fossi quindi spacciato. Invece mi risvegliai nel Wyoming, appunto, e subito mi resi conto che quello sarebbe stato uno dei tratti più difficili affrontati dalla Union Pacific da quando i lavori erano iniziati, quattro anni prima.
A causa della guerra i lavori avevano proceduto a rilento e la competizione con la Central Pacific, la compagnia che ci stava venendo incontro da ovest, era sempre più pressante: il nervosismo degli investitori si rifletteva sulla compagnia e quindi su noi poveri diavoli costretti a lavorare - spesso anche tutto il giorno - in condizioni pietose.
Uscii dall'infermeria del campo socchiudendo gli occhi dopo tanti giorni di penombra e osservai con occhi critico la catena montuosa che si dispiegava all'orizzonte: anche da lontano appariva imponente e minacciosa rispetto al nostro piccolo accampamento e immaginai che da lassù la nostra ferrovia doveva sembrare un unico, sottile filo argentato.

Abraham mi riconsegnò il piccone e mi accompagnò mugugnando dagli altri: la nostra squadra era composta per la maggior parte da tarriers* come me e da qualche ex-schiavo sfuggito alla schiavitù prima del 1861 o liberato al termine della guerra. I nostri rivali, invece, sfruttavano i coolies, gli immigrati cinesi che, si diceva, lavoravano instancabilmente procedendo molto più velocemente di noi.
A preoccupare me e i miei compagni non era tanto la gara in corso tra le due compagnie, ma problemi molto più immediati e vicini: le condizioni di lavoro disastrose, la spinosa questione di come attraversare le Montagne Rocciose e affrontare le bellicose tribù indiane, tra cui quella dei temibili Cheyenne.
I terreni su cui sarebbe passato il treno in breve tempo sarebbero valsi una fortuna, ma in gran parte appartenevano agli Indiani — almeno sul piano legale. Nella pratica, nessuno dei due contendenti avrebbe ceduto senza lottare.

«Ben tornato, Russell!» esclamò Chuck Turner, sputando per terra e asciugandosi il sudore dalla fronte. Era mio coetaneo, ma non era stato richiamato alle armi perché da bambino era rimasto cieco da un occhio in un incidente; era perciò rimasto a lavorare alla ferrovia ed era esperto di tutto ciò che riguardasse i treni.
Era anche l'unico a chiamarmi per nome; gli altri al campo mi conoscevano come Walker, o con il soprannome di 'Colt' per la pistola che mi portavo sempre dietro. Non era da tutti possedere un'arma del genere e saperla usare così bene, perciò ne ero molto geloso: mi ero guadagnato il diritto di portarla negli orrori della guerra, sebbene poi fossi risultato un fallito con un lavoro duro e umile.
Guardandola rievocavo non solo gli spari, il dolore della ferita e l'amarezza di quegli anni, ma anche l'abilità che aveva colpito i miei commilitoni e i superiori. Ero un bravo tiratore e forse avrei potuto fare carriera nell'esercito, se le cose fossero andate diversamente.

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