Namid
La mattina dopo fui svegliata da un rumore metallico e dalle imprecazioni soffocate di Russell. Sbattei le palpebre, ancora assonnata e ferita dalle lame di luce che penetravano dall'esterno della tenda: l'uomo stava raccogliendo la pistola che era caduta a terra con tutta la fondina, per poi fissarla alla propria cintura.
«Già pronto?» chiesi, sollevandomi a sedere e stropicciandomi gli occhi.
Poco distante da me, Ayasha riposava ancora, avvolta in una calda coperta. Gli occhi verdi di Russell brillarono maliziosi nello scrutare la porzione di pelle lasciata scoperta dalla mia posizione: la sera prima si era infilato nel mio giaciglio quando stavo per cedere al sonno e incurante della ragazza che dormiva accanto a noi aveva iniziato a spogliarmi. Un brivido caldo mi scivolò lungo la schiena e sorrisi al ricordo di come avevo dovuto soffocare i miei gemiti mordendogli la spalla.«Devo andare, non voglio litigare con King il primo giorno: ci vorrà un po' prima che tutti tornino ad abituarsi alla mia presenza senza essere diffidenti. Tu fai le cose con calma: l'arsura inizia a darci fastidio solo nelle ore più calde del giorno, quindi puoi riposare un altro po'.»
Annuii, chiedendomi cosa avrei potuto fare per ingannare il tempo. Russell si chinò a mordicchiarmi il lobo dell'orecchio un'ultima volta prima di andarsene:
«Ah, quando si sveglia puoi chiedere ad Ayasha di badare a Saqui e a Tasunke? Sono legati qui fuori. Forse avere qualcosa da fare le risolleverà un po' lo spirito!»Voltai il capo verso la mia amica, che non accennava a svegliarsi: aveva un'espressione serena, forse sognava la tribù ed Hevataneo, perciò decisi che non avrei interrotto la sua illusione.
Mi infilai la mia solita tunica ed uscii fuori dalla tenda, rabbrividendo per l'aria fredda del mattino: presto sarebbero arrivate le prime nevicate e non dubitavo che il lavoro degli uomini bianchi si sarebbe fatto molto più difficile.
Intravidi delle donne che trasportavano ceste di panni verso i margini del campo e dal loro abbigliamento provocante intuii che fossero le prostitute di cui mi aveva parlato Russell. Sospirai: provavo pena per loro e non avevo alcuna intenzione di avvicinarmi, ma se volevo avere qualche speranza di integrarmi in quella strana società dovevo pur legare con qualcuno. Eccetto i compagni di squadra di Walker, infatti, non conoscevo nessuno in quel campo e la cosa avrebbe potuto rivelarsi pericolosa.
Decisi perciò di impiegare le mie ore libere ad esplorare i dintorni della nostra tenda, senza allontanarmi troppo: Ayasha si sarebbe allarmata oltre misura se non mi avesse trovata da nessuna parte, al risveglio. Non potevo certo immaginare che quella giornata mi avrebbe offerto subito quei contatti di cui avevo bisogno.Mi imbattei infatti in una tenda enorme, simile a quella di Otoahhastis: poteva contenere un gran numero di persone e davanti ad essa c'era un palo verticale su cui era stata inchiodata un'altra asse all'altezza dei miei occhi. Girai intorno a quello che credevo fosse un simbolo di qualche genere, affascinata: non avevo proprio idea di cosa potesse significare. A risolvere i miei dubbi fu una voce dall'interno della grande tenda:
«È una croce. Il simbolo di Nostro Signore Gesù Cristo.»Mi voltai e incrociai lo sguardo di una ragazza più o meno della mia età: non dimostrava più di diciassette primavere, mentre io stavo per entrare nella ventunesima. Aveva due occhi neri e ravvicinati, labbra sottili e un incarnato pallido che sbatteva un poco con il colore scuro degli occhi e dei capelli, raccolti dietro la nuca in una crocchia severa. Indossava un abito nero e sobrio chiuso fino al collo: era di buona fattura, ma i gomiti delle maniche erano lisi e l'orlo della gonna sembrava essere stato ricucito più volte.
«Non ho capito ciò che hai detto.» ammisi, francamente.
La ragazza sorrise con benevolenza:
«Lo immaginavo, voi nativi non conoscete il Verbo, ma se vuoi sarò felice di insegnartelo. Sei la ragazza indiana di Colt?»Annuii:
«Sì, il mio nome è Namid... Cox. Namid Cox.»
Sorpresi me per prima adottando il cognome di mia madre, ma mi dissi che se davvero dovevo farmi strada tra gli uomini bianchi, essere una mezzosangue era decisamente meglio che essere un'indiana Cheyenne.
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The Railroad
Historical FictionWyoming, 1866. Russell 'Colt' Walker sa bene cosa significa sopravvivere: da quando la Guerra Civile è finita, lasciandogli in dono ferite più o meno visibili, non ha fatto altro. E come lui molti altri dipendenti della Union Pacific, una delle d...