The choice

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«Perché l'uomo bianco è armato?» chiese Otoahhastis.

Qualche ciocca bianca nella folta chioma corvina lasciata libera sulle spalle e l'intrico di rughe attorno agli occhi erano gli unici segni evidenti della sua età non più giovane: ad occhio e croce gli avrei dato quarantacinque anni. Nonostante ciò, Otoahhastis aveva un fisico possente ed era molto più alto della media dei nativi: svettava su Hevataneo di tutta la testa. Gli occhi erano penetranti e più chiari di quelli che si incontravano in giro per il campo: variavano su una particolare tonalità di grigio e mi scrutavano con severità e dubbio. Nell'insieme mi ricordava qualcuno, ma non riuscivo a capire chi.
Io ed Hevataneo ci guardammo negli occhi, come due bambini sorpresi a fare una marachella: leggevo nei suoi occhi che neanche lui aveva pensato che potessi puntare l'arma contro il suo petto. Il mio amico provò a parlare, ma la mano alzata di Otoahhastis lo fermò.

«Vai via, Hevataneo: devo parlare con l'uomo bianco. E devo farlo da solo.»

Hevataneo mi lanciò un'occhiata preoccupata e provò a discuterne con il capotribù, ma un perentorio e minaccioso sguardo di quest'ultimo lo spinse ad obbedire.
Otoahhastis non parlò subito.
Ebbi così modo di osservarlo con più attenzione: vidi che attorno al braccio aveva un laccio di cuoio annodato e scolorito dal tempo, carico di chissà quale significato, e che sul petto lasciato scoperto campeggiava l'immagine stilizzata di un wapiti*.
Hevataneo mi aveva detto che per loro i simboli e gli animali avevano un significato particolare, diverso da persona a persona: mi chiesi per qualche istante cosa significasse quel tatuaggio, poi fui folgorato da un'illuminazione.

«Il vecchio che era venuto a parlare con Dodge!» esclamai, facendo aggrottare la fronte al capo.
«Tu... Mi ricordi una persona. Anziano, saggio, venuto a parlare agli uomini bianchi.»

Le labbra sottili di Otoahhastis si distesero in un sorriso fiero e allo stesso tempo beffardo:
«Viho.»
Quel nome mi suonava familiare, perciò annuii.

«Era mio fratello. Morto nell'imboscata in cui tu hai catturato Namid.»

Il mio coinvolgimento nell'attacco era evidente, inutile negarlo, perciò mi limitai a distogliere lo sguardo dal suo, chinando il capo in un gesto di cordoglio. Quell'uomo mi era sembrato molto fragile e anziano; mi chiesi chi dei nostri l'avesse colpito.

«Ora siamo rimasti senza sciamano. Senza la guida di mio fratello è difficile capire dove andare a cacciare, cosa fare con voi uomini bianchi...» mormorò, sovrappensiero. Poi si riscosse:
«Namid ha parlato molto bene di te e io sono molto stupito nel vederti.»

«Perché?»

«Perché sei uno strano uomo bianco.»
Quella criptica frase iniziava a darmi sui nervi, ma cercai di non darlo a vedere, aspettando che continuasse.
«Strano è il tuo comportamento: difenderla dai tuoi compagni, salvarla più volte. Poi la vieni a cercare e non ti ribelli quando ti catturano... Sì, sì, strano. E anche in questi giorni, ho visto un uomo tranquillo, intelligente, propenso ad imparare — il fatto che intendi le mie parole lo dimostra.
Eppure so per certo che molti spiriti maligni ti hanno toccato e che ne porti ancora il segno; so che non avresti dubbi nell'usare l'arma a cui tieni tanto per eliminare chi si pone sulla tua strada. Per questo mi sono arrabbiato quando ho visto che Hevataneo ti aveva dato l'arco. Ma tu non l'hai usato contro di lui.»

«Certo che no! Non l'avrei mai fatto!» sbottai, infastidito dalla sua descrizione poco lusinghiera.

Otoahhastis indicò con una mano il lungofiume:
«Vieni, uomo bianco, cammina con me.»

«Il mio nome è Russell Walker, comunque!»
borbottai, seguendolo.

«Vorrei parlare con te di una cosa e ti prego di essere sincero.»

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