The escape

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Russell

Entrammo nel campo in un silenzio surreale: si udivano solo i passi degli stivali e i guaiti eccitati dei cani. Io procedevo subito dietro a Dodge, stringendo con una mano le spalle di Namid che non aveva smesso neanche per un attimo di tremare. Non era ancora buio e uno alla volta gli abitanti del campo – operai, soldati, prostitute e strozzini – si fecero incontro al nostro drappello, per osservare con curiosità me e la ragazza indiana che eravamo andati a salvare.
All'improvviso due figure si distaccarono dalla folla, correndo verso di noi. Ayasha strinse Namid tra le braccia, strappandola letteralmente alla mia presa, le accarezzò le guance e la fronte, strillando in lingua Cheyenne — «Stai bene? Che è successo? Oh, ero così preoccupata!» — e Namid si limitò a tendere le labbra in un sorriso mesto, poggiando il capo nell'incavo del collo dell'amica, mentre Annabeth, qualche passo più indietro, non riusciva a frenare le lacrime.

Kasper si accostò a noi uomini:
«Dov'è l'indiano?»

«Morto.» commentò pacatamente Abraham, sputando per terra.

Gli occhi del polacco luccicarono di soddisfazione e si voltò verso di me:
«Ben fatto, Colt.»

«No» mormorai. «Non sono stato io, stavolta.»
E mi voltai a cercare gli occhi della mia allieva, che mi fissavano commossi tra l'affetto delle sue amiche.
"Non ho dimenticato che hai promesso di sposarmi, dolcezza!" pensai, ridendo tra me e me.
Un discreto colpo di tosse mi fece tornare con i piedi per terra; mi accorsi che accanto a me sostava anche il generale Dodge e che le persone accorse per la nostra entrata trionfale al campo stavano velocemente scemando, tornando alle loro occupazioni quotidiane.
Mi passai una mano tra la barba che in quei giorni di prigionia era cresciuta più del solito:
«Dove sono le guardie per riaccompagnarmi alla mia cella, signore?» domandai, con una lieve nota di sarcasmo.

Sapevo di osare più del consentito, ma il generale sembrava apprezzare la mia audacia, infatti ghignò:
«Sei davvero temerario, Colt: è un peccato che tu non abbia potuto continuare a servire nell'esercito, avresti fatto carriera!»
Alzai le spalle con aria indifferente: c'era stato un periodo, nella mia vita, in cui avevo davvero accarezzato l'idea di seguire quella strada, ma ormai era morto e sepolto come Grace Campbell.
«Non tornerai in prigione!» chiarì poi Dodge, sbuffando. Come la maggior parte degli ufficiali, non era un uomo a cui piaceva ammettere di aver preso una cantonata. «Devo ancora capire una cosa, però: se Kuckunniwi mentiva, come mai l'indiano aveva quella chiave?»

Rabbrividii e non certo per la temperatura che stava scendendo rapidamente: avevo capito che con la risposta a quella domanda mi stavo giocando la libertà e la possibilità di un futuro tranquillo per Namid. Avrei dovuto mentire su due piedi e in modo convincente, perciò optai per qualcosa che non si discostasse troppo dalla verità:
«Quando sono arrivato al campo indiano ero ferito e solo l'intervento di Namid ha impedito ai nativi di massacrarmi. Mi hanno però perquisito e preso ogni cosa che avevo indosso: non solo gli abiti e la pistola, ma anche quella chiave.»

Dodge mugugnò, tirando fuori dal taschino della camicia proprio quel misero pezzo di ferro:
«Beh, adesso è tornata a te.»

«Non la voglio.»

«Uh?»

Lo guardai diritto negli occhi e ripetei, lentamente:
«Non la voglio. Non mi serve più. La tenga lei, la butti, che so io... Insomma, ci faccia quello che vuole, ma non la dia a me.»

Il generale continuò a rigirarsi tra le mani la piccola chiave, poi borbottò, sorpreso:
«Sei un uomo misterioso, Russell Walker. Di valore, ma misterioso. So per certo che mi stai nascondendo qualcosa, ma non credo che riuscirò mai a scoprire la verità.»

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