The bow

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Namid

«Il sangue dell'uomo bianco si è risvegliato...»

«... Traditrice, bugiarda...»

«L'ho sempre detto io che era troppo superba e altezzosa! E adesso, il povero Avonaco è morto e lei giace con lo straniero!»

«E quegli occhi? Dovevamo capirlo subito che portavano sfortuna! Waquini doveva abbandonarla non appena è venuta al mondo!»

Alzai il mento e affrettai il passo, superando senza degnarle di uno sguardo le donne che, sedute davanti alle loro tepee, stavano conciando delle pelli di bisonte. Non appena mi videro si zittirono, ma i loro sguardi pesanti e malevoli rimasero puntati su di me fino a quando non raggiunsi la capanna di Ayasha ed Hevataneo. Una volta dentro sospirai e la mia amica mi guardò con occhi compassionevoli.

«Vieni qui, povera piccola. Non ascoltarle, quelle hanno la lingua biforcuta come i serpenti!»

Per Ayesha erano tutti "piccoli", nonostante mi arrivasse a malapena alle spalle; l'aveva fatto fin da ragazzina e adesso mi faceva sorridere il pensiero che anche Hevataneo fosse apostrofato a quel modo. Scrollai le spalle e con un sorriso mi sedetti a gambe incrociate accanto a lei, nella penombra della tenda.
Dopo la fuga di mia madre alcuni si iniziarono a lamentare della mia presenza nella tribù: i miei occhi spaventavano tutti e molte bambine si rifiutavano di giocare con me, accusandomi di portare il malocchio.
Ma grazie all'amore di mio padre e al supporto dei miei amici, prima tra tutti Ayasha, non ero stata toccata più di tanto da questo pesante giudizio; crescendo, avevo dimostrato di essere una ragazza sveglia, forte, intelligente, capace di rendere fiero il proprio padre e la propria tribù. Mi ero anche sforzata di non dimenticare la lingua di mia madre, che tornava molto utile nelle sporadiche trattative commerciali con gli uomini bianchi, e per questo il vecchio Viho mi aveva voluta con sé... Beh, anche per convincermi a sposare suo nipote Avonaco, ma ormai non aveva più importanza: erano morti entrambi nell'agguato.

«A cosa pensi?»

La voce cristallina di Ayasha mi strappò a quei pensieri. Stava decorando una pelle che Hevataneo avrebbe usato come sella e io la osservai per un attimo rapita: non ero mai stata molto brava in quel genere di lavori, ma presa da un'improvvisa ispirazione le chiesi:
«A niente. Mi presteresti una delle tue pelli?»

Ayasha sgranò gli occhi scuri e annuì basita. Poi mi rifilò un'occhiata sospettosa, mentre io iniziavo a ricamare.
«È per l'uomo bianco, vero?»

«Il suo nome è Russell. Sì, è per lui.»

Ayasha sbuffò. Era uno sbuffo particolare che io conoscevo bene: il malcapitato che le si ritrovava davanti quando la mia amica buttava fuori l'aria dalle labbra in quel modo, come un bisonte infastidito, sapeva che lo aspettava una ramanzina speciale.

«Ti stai cacciando in un bel guaio, Namid. Sei la luce degli occhi di tuo padre e Otoahhastis ti rispetta per l'aiuto che gli hai sempre fornito, ma hai rischiato molto nel prendere le sue difese: è un nemico, lo sarà sempre. Ti ricordi cosa hanno fatto ai nostri fratelli, non più di due inverni fa? Donne e bambini massacrati senza pietà, mutilati... E tutto questo per la terra. Questo vogliono, gli uomini bianchi: terre, ricchezze, ancora terre... Non tengono in nessun conto la vita degli altri se non per il loro tornaconto, non rispettano la Madre Terra, non rispettano niente di ciò che è sacro!»

«Perché per loro sono sacre altre cose!» replicai, anche se le sue parole mi avevano colpito nel profondo. Erano gli stessi dubbi che covavo da quando avevo giaciuto con Russell.

«Esatto: loro, Namid. Tu fai parte del nostro popolo.»

«Ne sei sicura?» mormorai, interrompendo il lavoro appena iniziato e mordendomi il labbro inferiore.

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