Roma, ottavo giorno prima delle Calende di Febbraio del 41 d.C.
Cornelio Sabino guardò la sua spada. La lama splendeva sotto la luce del pallido sole invernale. Stette a guardarla come se, scrutando quella superficie liscia, potesse in qualche modo avere una risposta alla domanda che sentiva dentro. Con un sospiro, rinfoderò la lama nell'elsa. Sentì dei passi, veloci, percorrere la sala. Li avrebbe riconosciuti ad occhi chiusi. Si voltò, appena in tempo per vedere sua figlia Cornelia che, fuori di sé e ancora con la veste da notte, agitava i pugni in aria: «Padre, che storia è mai questa?» esclamò, agitata. Sabino di impose pazienza, e sorrise. «Figlia mia, calmati» le ordinò, con dolcezza ma al tempo stesso fermezza nella voce. La ragazzina incrociò le braccia al petto, offesa. «Non ho alcuna intenzione di lasciare Roma, padre. Per andare a Boville, poi!» esclamò, come se parlasse dell'Averno. Sabino, malgrado tutto, sentì il suo viso incresparsi in una risata. «Cornelia, non discutere. Verrai scortata a Boville, dove resterai fino a mio ordine» sentenziò, con la sua voce profonda. Cornelia, di fronte allo sguardo deciso del genitore, sbatté le palpebre, mordendosi il labbro. Sabino conosceva quell'espressione: sua figlia stava pensando a come controbattere. Doveva interrompere le sue elucubrazioni, o non ne sarebbero mai usciti. «Vatti a vestire subito. Le schiave hanno già preparato il baule. Il centurione sarà qui tra poco» aggiunse, voltando le spalle per farle capire che la questione era ormai chiusa. Cornelia strinse i pugni, sentendosi investire da una rabbia impotente: avrebbe dovuto lasciare Roma, il centro dell'Impero, per ritirarsi in campagna, in una villa rustica umida, isolata dal mondo. Almeno suo padre le avesse dato una spiegazione! Un motivo valido per il quale veniva allontanata da Roma così di fretta, anziché quel silenzio.
Sabino parve percepire i suoi pensieri perché, rimanendo voltato, disse: «Vorrei non esserci costretto, Cornelia. Vorrei non doverti allontanare, credimi. Ma molte cose stanno per cambiare. Ed è necessario che io ti garantisca la sicurezza che meriti».
A quelle parole, Cornelia non poté fare altro che rimanere in silenzio.
Caligola era incerto sul da farsi. Scostando la schiava che lo aveva soddisfatto tutta la notte dal suo petto, con un certo fastidio, si alzò in piedi. Si sentiva lo stomaco in subbuglio, probabilmente dovuto all'ennesimo banchetto luculliano che aveva dato la sera precedente. Si massaggiò la pancia, con aria annoiata. Era padrone dell'impero romano, eppure si annoiava. Alla fine si decise. «Callisto» chiamò, e il liberto, dopo pochi minuti, comparve al suo cospetto. «Dite, domine» rispose, con un mezzo inchino. Caligola sorrise, come sempre faceva quando qualcuno si inchinava davanti a lui. «Usciamo, Callisto. Chiama i pretoriani: vado a pranzo fuori, oggi» esclamò, con voce annoiata. Callisto si inchinò di nuovo, uscendo dalla sala, pronto ad ubbidire agli ordini. Un sorrisetto increspò le sue labbra, e un tremito di emozione attraversò il suo corpo: Presto Caligola sarebbe stato solo un brutto ricordo.
Cecilio Metello rimuginava. Seduto sul carro che aveva comprato, coperto da un mantellaccio da zotico, di tela grezza, ripensava all'incarico che avrebbe dovuto portare a termine. Ricordava ancora quando, giorni prima, il capo dei pretoriani dell'imperatore Caligola lo aveva convocato. Lo aveva squadrato a lungo, dall'alto in basso, e poi aveva annuito, come rispondendo a una domanda che non era stata espressa. «Ho un incarico per te, Metello» aveva detto, con la sua voce calma e profonda. A quelle parole, Cecilio si era inorgoglito, ed aveva annuito, pronto. «Ѐ una faccenda...privata, diciamo» aveva aggiunto Sabino, incrociando le dita delle mani. «Privata?» aveva ripetuto Metello, perplesso. Sabino aveva annuito, con aria di intesa. «Sei un bravo soldato, Cecilio. I tuoi uomini ti stimano. E credo proprio che tu sia la persona giusta per la missione che sto per affidarti» lo aveva lodato Sabino, cominciando a camminare avanti e dietro per la sala, ma mai senza perderlo d'occhio. Una volta che era stato certo di aver ottenuto l'attenzione del centurione, si era fermato proprio davanti a lui. Metello aveva avuto così la possibilità di osservarlo da vicino: gli occhi di Sabino, neri quanto i suoi capelli, sembravano quelli di un'aquila, puntati sulla preda che non perdeva mai d'occhio. Tuttavia, il viso era ingentilito da un naso sottile e dal contegno amichevole che l'uomo aveva, alla pari con Cassio Scherea, l'altro pretoriano più importante della legione di Caligola. E così, Sabino aveva parlato. Dapprima, Cecilio aveva creduto a uno scherzo: lui, un centurione, erede della gens dei Metelli, una delle più antiche e nobili di Roma, già famosi ai tempi del poeta Nevio, avrebbe dovuto badare a una ragazzina? «Ti chiedo scusa, Sabino, ma non credo di essere la persona più adatta. E poi, cosa dirà l'imperatore?» aveva obiettato, aggrottando la fronte. Sabino gli aveva puntato contro i suoi occhi neri come la pece, e Cecilio vi aveva visto un lampo di rabbia, fulmineo, attraversare il suo sguardo. «L'imperatore non sarà un problema» aveva risposto, senza la minima esitazione. Si era poi avvicinato alla scrivania, dalla quale aveva preso un sacchetto pieno di monete. «Ecco» aveva detto, porgendoglielo. «Questo è solo un anticipo. Quando riaccompagnerai a Roma mia figlia Cornelia, avrai il resto» aveva concluso, e Cecilio aveva compreso che non poteva in alcun modo sottrarsi. Aveva quindi chinato il capo, e si era allontanato. Era quasi uscito dalla stanza quando Sabino lo aveva richiamato: «Ti consiglio di accettare, Cecilio. Potrei agevolare il tuo congedo, farti assegnare una terra in quanto veterano.... Giulia ne sarebbe contenta, no?» aveva detto, in tono disinvolto, guardandosi le mani. Cecilio si era bloccato sul posto: come faceva Sabino a sapere di Giulia, la rampolla dei Sergi che intendeva sposare? Ma era ovvio, si era detto: Sabino era a conoscenza di tutti i segreti del popolo di Roma, grazie alle spie che Caligola aveva al suo servizio. Si era quindi limitato ad annuire, prima di uscire dalla sala.
Era quasi l'ora. Sabino guardò sua figlia salire sul carro, aiutata da Metello, coperta dal velo. Aveva stabilito che alcuni schiavi, armati, li seguissero a distanza ravvicinata, senza farsi notare, almeno fino al primo bivio. Cecilio non era avvertito, ovviamente: Sabino non si fidava di nessuno, neanche di lui. Le sue spie gli avevano riferito che era un uomo onesto, fedele all'imperatore e a Roma. Un bravo soldato fedele alla patria, insomma. Neanche sulla sua vita privata si poteva avere da ridire: non aveva vizi: né le donne, né il bere. Non frequentava le popine, voleva sposarsi con una ragazza di buona famiglia. Era la persona giusta, ne era convinto. Cornelia si era seduta sul carro senza neanche guardarlo in viso. Sabino sorrise: aua figlia era come lui, testarda e ostinata, aveva le sue idee e non cambiava idea facilmente. Non avrebbe certo reso la vita facile a Metello. Si avvicinò alla figlia, che si ostinava a guardare avanti a sé. «Arrivederci, Cornelia. Troverò il modo per farti avere mie notizie» le disse, sfiorandole un braccio. La figlia si voltò verso di lui, mostrando sotto il velo gli occhi luccicanti di rabbia. «Arrivederci, padre» si limitò a dire, portando di nuovo lo sguardo davanti a sé. «Andate ora» disse Sabino, guardando Metello. Il quale, annuendo, spronò i cavalli che si misero in cammino, lentamente.
Sabino guardò il sole: era arrivato il momento.
Caligola camminava baldanzoso, in mezzo al solito squadrone di pretoriani che aveva il compito di proteggerlo, e le guardie del corpo germaniche, i Batavi. C'erano anche alcuni senatori, che avevano voluto accompagnarlo, forse per cercare di rimanere nelle sue grazie, dato che i loro rapporti non erano mai stati facili. Prima di uscire dal palazzo, l'imperatore si era incontrato con alcuni amici, che lo avevano spronato ad uscire. E così, attraversando una galleria, notò un gruppo di musici, una compagnia teatrale, che stava provando. Dai loro tratti, li riconobbe come provenienti dall'Asia. Caligola si fermò, compiaciuto. I giovani erano molto attraenti, e lo guardavano con un misto di paura e rispetto. Era così che Caligola voleva essere guardato. Cherea e Sabino si scambiarono uno sguardo: era arrivato il momento propizio, non si poteva perdere tempo.
Un movimento impercettibile unì tutti i congiurati, che si mossero come un'onda nel mare agitato. Alcuni centurioni spinsero via la folla, lasciando campo libero a Cherea e a Sabino. Cherea si avvicinò di soppiatto, dandogli una botta in testa con la spada, di taglio. Caligola, urlando più per la sorpresa che per il dolore, cadde a terra, finendo per essere circondato dai congiurati. Le guardie germaniche, che gli erano fedeli, ruggirono e fecero per scagliarsi contro di loro, ma furono trattenuti dai centurioni. «Colpisci!» urlò Cherea nell'orecchio di Sabino, che guardava Caligola, ridotto una maschera di sangue per i molti colpi subìti. Mancava il colpo decisivo, quello finale. Sabino guardò l'imperatore: in quel momento sembrava solo un ragazzo di ventinove anni, ferito ed offeso, anziché il tiranno folle che era in fondo al suo cuore nero. Non si poteva tornare indietro, non più. Affondò la spada nel petto di Caligola, che si accasciò al suolo.
L'imperatore era morto.
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Fumo Rosso
Historical FictionRoma, 41 d.C.: l'imperatore Caligola sta per essere ucciso dalle sue guardie del corpo. Cornelio Sabino, a capo della congiura contro l'imperatore, affida sua figlia Cornelia, bellissima e orgogliosa sedicenne, alle cure del centurione Cecilio Metel...