Capitolo 2

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Passarono gli anni e al re, ormai molto vecchio e incattivito dalla perdita della moglie, rimanevano i due figli. Stefano, il primogenito, cresciuto possente come un leone e altrettanto valoroso, aveva la stoffa per diventare un sovrano corretto e risoluto. La sorella invece, nata con i capelli del colore dei lillà in fiore e l'animo di un folletto dispettoso, sopportava a malapena i tentativi del padre di trasformarla in una gran dama. Molto spesso spariva nel bosco con un pugnale come amico e nient'altro che foglie per abito. Il suo nome era Diana...

C'era qualcosa nel bosco quella notte, qualcosa che giungeva dalla città; sembrava scorrere nel legno degli alberi, dondolandoli assieme al vento.
Gaia camminava sulla terra fresca e polverosa, accarezzandola a piedi nudi. L'odore di funghi e resina non riusciva a rilassarla, era pervasa da una strana inquietudine. Aveva l'impressione che echi sottili la seguissero nella foresta, saltando di ramo in ramo.
La ragazza si era svegliata dopo un sonno nervoso e leggero, sicura di vedere il sole del mattino oltre le tende. E invece i suoi occhi avevano incontrato la luna di mezzanotte. L'aria soffiava fresca, nonostante la giornata fosse stata afosa; un venticello stanco aveva trovato il coraggio di entrare nella camera e alitarle languidamente sulla pelle sudata, stretta alle lenzuola stropicciate. Aveva sentito suo padre russare nella stanza accanto e anche se sapeva che sua madre aveva il sonno leggero, non si era preoccupata: tutti i pensieri e tutti i sensi erano rivolti verso quella sensazione alla bocca dello stomaco, quel bisogno urgente che l'aveva svegliata e l'avrebbe portata a cercare soddisfazione fuori di casa, lontano da quell'opprimente città.
Dalla portafinestra erano entrati i profumi dell'erba tagliata, delle rose del giardino di mamma e un vago sentore di umidità, annuncio di un prossimo temporale. Gaia aspettava impaziente l'arrivo dei lampi e dei tuoni: incosciente di quello che sarebbe potuto succederle, avrebbe attraversato il bosco nel bel mezzo della tempesta inebriata dalla sensazione di potenza che le trasmetteva, infradiciandosi dalla testa ai piedi, correndo sui sentieri bagnati e sfiorando rocce e tronchi inzuppati di pioggia. I suoi unici momenti di libertà.
Distesa ancora sopra le lenzuola, la ragazza aveva inspirato profondamente per un'ultima volta l'aria che entrava dalla finestra e, ascoltando il frinire di grilli e cicale, si era alzata stiracchiandosi pigramente, finché un'ombra si era stagliata sulla portafinestra. Un basso miagolio le aveva annunciato la presenza di Gatto, facendola sorridere: la sua scura ombra pelosa non l'abbandonava mai.
Improvvisamente sveglia, Gaia si era tolta la camicia da notte appiccicaticcia, eliminando quel tessuto che le soffocava la pelle e aveva concesso il suo corpo imperfetto e morbido al chiarore della Luna, infilandosi poi in un inconsistente scamiciato bianco, lungo e trasparente. Se l'avessero vista la madre o il padre l'avrebbero rinchiusa a vita in uno sgabuzzino, ma in quel momento Gaia si era sentita completamente libera ed eccitata per quello che la notte poteva offrirle.
Canticchiando sottovoce, aveva preso il pettine di legno e aveva districato i lunghi capelli scuri che le arrivavano a boccoli oltre i fianchi, raccogliendoli poi sulla testa, con uno spillone, in una crocchia morbida. Aveva afferrato la vecchia borsa di cuoio ormai devastata dall'usura, abbandonata sotto la finestra, e una leggera mantella di cotone nero, utile a confonderla nella notte nel caso qualcuno l'avesse vista. Poi, senza rimorso, era uscita sul piccolo terrazzino invaso dalle piante di sua madre e agganciando una scala di corda alla ringhiera si era calata dal primo piano al giardino sul retro, senza alcun rumore.
Prima a incontrarsi entrando in città, la casa di Gaia mostrava il retro agli argini selvatici del Rio Corto e la sua camera era l'unica affacciata sul fiume. Era impossibile che qualcuno scoprisse le sue fughe notturne.
Si era resa conto solo imboccando il sentiero di aver dimenticato i sandali; ma si sarebbe posta il problema quando avrebbe dovuto attraversare il piccolo torrente poco più avanti, immergendo le dita nelle acque gelate che espandevano il loro gorgoglio per la foresta.
Erano quelli i suoni che la braccavano nell'oscurità? O qualcosa di straniero?
Il cuore della ragazza, sospeso tra le costole, poco mancò che precipitasse del tutto quando intravide le ombre. Le sagome scure, una dozzina, strascicavano stancamente i piedi sullo spiazzo sassoso, girovagando tra alti carrozzoni di legno coperte di stracci. Candele sparse qua e là illuminavano volti umani distorti. A una decina di metri da Gaia, due omuncoli si muovevano tra i carri, la faccia così impiastricciata di colori che non se ne distinguevano i tratti, le vesti grigie che pendevano stracciate e logore dando loro la parvenza di vagabondi pestati a sangue. Li seguiva, sbraitando a bassa voce, un uomo senza gambe, la faccia spiritata, una bocca larghissima e un ventre enorme; seduto su un basso carrello, si trascinava a braccia tra la polvere.
Stranieri a Sirene? Solo dei folli potevano aver deciso di entrare e fermarsi in città. Magari li avevano prelevati da qualche manicomio lontano e ora li abbandonavano lì.
La fantasia della ragazza galoppava a briglia sciolta. Dal suo nascondiglio poteva osservarli senza essere vista: un uomo largo come uno spillo con un alto cilindro calato sugli occhi sedeva ancora a cassetta, russando così intensamente da svegliare perfino i lombrichi; appoggiato a un suo compare che gli dava man forte nel concerto. Una donna tanto bella da sembrare surreale come una ninfa, svolazzava intorno al proprio cavallo, ricoperta di pochi veli; i suoi lunghi capelli rossicci drappeggiati sulle spalle e gli occhi dal taglio esotico avrebbero sicuramente scatenato gelosie in città. Sul suo stesso carro sedeva una ragazza minuscola, la pelle color caffè e un'aureola morbida di riccioli neri che si muovevano a ogni sussulto; vestita con una salopette informe, cincischiava con tre apparecchi elettrici diversi, un groviglio di fili e manopole.
La carrozza che le affiancava, dipinta di azzurro chiaro e cosparsa di brillantini, sembrava una bomboniera: il cavallo bianco che la trascinava era coperto da centinaia di piume e lustrini che gli nascondevano la schiena e il muso. La stava sistemando una bambina dall'espressione immusonita, fasciata da una tutina aderente, anch'essa azzurra e ornata da piume blu infilate nei capelli irrigiditi dal gel.
Minuscole campanelle erano agganciate a ogni appiglio di quelle baracche ambulanti, che sembravano negozi di cianfrusaglie piuttosto che case. Gaia ne era più spaventata che divertita: prevedeva i guai che avrebbero portato, soprattutto conoscendo il rifiuto innato dei suoi concittadini verso i forestieri.
Quando i suoi occhi si posarono sul carro più distante, completamente disadorno, Gaia trasalì: per un attimo le era parso di aver intravisto un viso familiare, ma non aveva potuto accertarsene perché un uomo enorme, alto, con dei muscoli da toro e la pelle che si confondeva nella notte, era passato accanto al suo nascondiglio.
Aspettò qualche minuto per accertarsi di non essere vista e poi sgattaiolò via, tuffandosi nella foresta. Non permise alla mente di soffermarsi a lungo sugli stranieri, concentrandola solo sulla destinazione della sua fuga. Si mise a camminare lentamente tra gli alberi sussurrando sommessa una vecchia cantilena, circondata dalle tenebre.
Superando una curva, Gaia si ritrovò vicinissima al vecchio cimitero della città, spettralmente illuminato da un tenue chiarore lunare. Rallentò fino a fermarsi su di un masso, dove si sedette a osservare le ombre tra le lapidi. Quella sera il tempo aveva regalato un affollato cielo stellato e, sotto gli alberi, l'insolito calore di fine aprile si attenuava, mitigato da una brezza leggera.
Un ringhio improvviso e minaccioso al suo fianco le tese i nervi, spaventandola. Girandosi lentamente si maledisse per non aver dato ascolto ai presagi: gli occhi gialli di quello che sembrava un grosso vitello pezzato la fissavano ostili, senza contare i denti che s'intravedevano tra le fauci aperte. Sentì la pelle d'oca su tutto il corpo.
Un istante dopo una figura si drizzò, sostenendosi alla statua di una tomba. Quando Gaia la vide fare due passi incerti nella sua direzione, non ci ragionò a lungo: diede il comando alle gambe e corse via. Si pentì della scelta troppo tardi: la bestia la inseguiva a poca distanza, rincorrendola come se fosse un enorme prosciutto.
Iniziò una corsa disperata attraverso il bosco, ma già dopo pochi secondi la ragazza era sfinita: non riusciva più a richiamare una sola molecola di ossigeno nei polmoni e le gambe avevano cominciato a morderle per la fatica. Con l'abbaiare feroce di quello che doveva essere un cane e il fragore del sangue che le rimbombavano nelle orecchie, Gaia smise di essere cosciente delle proprie azioni. Spronata dalla paura e dall'adrenalina, decise di scartare verso un terreno più accidentato; sottovalutò però l'agilità dell'animale, che si inoltrò prontamente con lei tra gli alberi più bassi e fitti. Centinaia di rami e aghi le scavarono la faccia e le braccia, rendendola cieca per le lacrime e aumentando il suo terrore in modo vertiginoso.
Le gambe ormai non la reggevano più, il sudore le imperlava l'avvallamento tra i seni e le segava l'interno coscia. Era in guai seri: oltre al pericolo di venire dilaniata dai morsi del cane, aveva sentito in lontananza una voce maschile che lo richiamava e si domandava se quella presenza potesse rivelarsi una minaccia peggiore.
Altrettanto preoccupato per il rischio di perdere Raffa all'interno del bosco, Michele, nel frattempo, aveva provato a richiamarlo disperatamente. Sentendo i latrati immergersi sempre più tra gli alberi, non gli era rimasto altro da fare che stringere i denti, accendere la torcia che si era portato dietro e correre attraverso uno degli stretti sentieri tra la boscaglia, maledicendo l'alano, l'ombra, il bosco e la città intera. Riuscì a raggiungere Raffa e l'ombra che poteva chiaramente veder sfrecciare davanti a lui, illuminata a stento dalla Luna. Avevano imboccato un sentiero degno di un campo addestramento militare, perciò era troppo impegnato a non inciampare nel terreno per guardare davanti a sé; ma quando riuscì a osservare meglio la preda che stavano inseguendo, gli venne quasi un colpo.
Un enorme pipistrello? O un aquilone nero con le gambe? O un angelo della morte dalle ali nere senza la falce? Ma no, è solo una ragazzina idiota con la mantellina e il cappuccio. Chi può essere tanto stupido da andarsene in giro di notte, nei boschi, vestito di nero, incappucciato come se fosse febbraio quando siamo a fine aprile e con 25 gradi all'ombra? Uno squilibrato. O una donna. Che in fondo è lo stesso, pensò Michele, con la rabbia che gli pompava adrenalina nel sangue.
La ragazza correva ansimando di terrore, incapace di imboccare una direzione che la potesse salvare; Raffa le stava a pochi metri, sordo a ogni richiamo. Michele arrancava dietro alle due figure quando improvvisamente le vide scartare fuori dal sentiero.

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