Capitolo 9

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In una mattinata di sole, Diana fu sorpresa dall'arrivo del re e di un seguito di cavalieri: «Diana, figlia mia, ti abbiamo ritrovata. Torna con noi al castello, il principe Riccardo ti vuole in sposa. La notizia della tua scomparsa non è ancora trapelata, uccideremo il boscaiolo per salvare l'onore della famiglia.»

Diana a quelle parole impallidì e senza esitazione brandì la pesante accetta di Massimo, puntandosela alla gola.

«La mia mente può aver scordato il vostro viso, ma nulla mi farà persuasa di essere figlia di un animo crudele come il vostro. Uccidete lui e io mi toglierò la vita. A voi la scelta.»

«Non voglio la morte del mio stesso sangue sulla coscienza, ma d'ora in poi sarai perduta per il regno e per il mio cuore...»


Non aveva mai notato quanto fosse rumorosa e fastidiosa la lancetta ticchettante della sveglia, posta a quindici centimetri dal suo orecchio sinistro. Maledettamente irritante. Gaia non riusciva nemmeno a seguire il flusso di pensieri senza venir distratta da quel chiasso ritmico.
Forse però era meglio così.
Dove sarebbe andata la sua mente, se l'avesse lasciata correre libera?
Mancavano ancora dieci minuti al trillo dell'orologio, ma nonostante le sue abitudini da ghiro aveva gli occhi spalancati come i fanali di un autobus.
Lasciava sempre i balconi scostati per esser svegliata dal sorgere del sole e lo spicchio di luce che entrava dalla finestra sembrava voler destare, con lei, anche la camera: i muri dipinti di verde bosco, le tende lattee, gli antichi mobili di legno chiaro tramandati dalla bisnonna, gli oggetti sparpagliati su ogni superficie secondo un ordine che esisteva solo nella sua mente, spesso impilati in un equilibrio che sfidava le leggi fisiche.
Il suo luogo di pace, quella mattina, non la rilassava. Troppe domande per la testa, troppe risposte che non le piacevano per niente.
Una vita ordinata, equilibrata, programmata, tranquilla, non era in fondo ciò che voleva? Quello che tutta Sirene pretendeva? Rimanere nell'ingranaggio e uscirne a comando? Altrimenti, ribellarsi alla quotidianità e infilarsi nel bosco mezza nuda quando e come decideva lei. Lei, che comandava sui suoi sensi. Così doveva essere. Un mangiafuoco qualunque e la sua combriccola di artisti di strada non avrebbero cambiato le cose.
Anzi, adesso si sarebbe alzata, appena suonata la sveglia, e sarebbe andata al lavoro. Perché era quello che faceva tutti i giorni. Dal lunedì alla domenica, otto ore al giorno, a turni alterni notturni o giornalieri.
L'orologio cominciò a suonare e a ballonzolare sul comodino come se fosse dotato di vita propria e Gaia scattò seduta sul letto come una molla, lo sguardo risoluto. Scelse gli abiti più sportivi e castigati del suo armadio e andò a lavarsi la faccia. Poi fece colazione. Si lavò i denti. Calzò i sandali. Con un cenno di saluto a una Gigliola piuttosto sconcertata, prese la borsa e si diresse a passo di marcia alla pasticceria Crema. Afferrò infine Ambra nel momento in cui stava uscendo, che la guardò stranita come se fosse un annaffiatoio danzante, e si diressero allo studio medico in completo silenzio.
Lavoravano come infermiere tirocinanti dal giovane e affascinate dottor Panciera, aiutandolo nella gestione dello studio e del piccolo ospedale di Sirene, testando sul campo quello che nel frattempo studiavano nella scuola di formazione del Comune.
Entrarono dalla porta sul retro, indossarono i camici da lavoro e le ciabatte regolamentari e, facendo un solo passo all'interno dello studio, furono subito investite dal passaggio fulmineo del medico.
«Maschera, Crema, sono arrivati due nuovi pazienti poco fa, due ciclisti che volevano saggiare la solidità del terreno rotolandoci sopra. Lussazione della caviglia e presunto trauma cranico per uno, qualche graffio l'altro. Sono ancora al Pronto Soccorso, una di voi vada a trascrivere i loro dati personali, misurare la pressione, medicare e mandare fuori a calci il secondo e assegnare un letto al primo, in attesa di un mio controllo. Nel frattempo l'altra mi assisterà nelle visite alle stanze dei ricoverati, munita di carrello dei medicinali. Subito dopo ci saranno i prelievi del sangue: osserverete e catalogherete le provette, senza svenire. Alle undici ho un'operazione per l'estrazione di una ciste e voglio trovarvi entrambe in sala, gli strumenti chirurgici disinfettati e pronti. Abbiamo una giornata piena, ragazze, via quegli sguardi assonnati e al lavoro!»
Subito dopo scomparve nel suo ufficio, per poi uscirne trafelato con le cartelle dei pazienti in mano. Di certo non ci sarebbe stato da annoiarsi.
Un paio d'ore dopo il termine del turno, nel tardo pomeriggio, Gaia riuscì finalmente a riporre il camice nell'armadietto e, salutando l'amica, si diresse verso il Teatro Civico, dove stavano avendo luogo le prove di una rivisitazione di "Peter Pan".
La ragazza non fece nemmeno in tempo a varcarne la soglia che un uomo bianco e barbuto, che sembrava il gemello scorbutico di Babbo Natale, si piazzò davanti a lei, le mani appoggiate ai fianchi.
«Sei in ritardo.»
«Ciao papà, che bella giornata di sole oggi, hai visto?», rispose Gaia allegra, anche se dalle occhiaie che presentava il suo buon umore era solo una grande falsità.
Bortolo Maschera ‒ Brontolo per gli amici ‒ lavorava da anni come direttore artistico nel Teatro Civico di Sirene; a voler essere pignoli lui era pure regista e a volte s'improvvisava attore, secondo lo spettacolo. Il teatro non riceveva tanti finanziamenti dal Comune e, per dirla tutta, non andava nemmeno molto di moda, ma era la sua grande passione, ereditata dal padre e dal nonno prima di lui. Con lui lavoravano altre cinque persone, senza contare l'impegno di Gaia nella costruzione e realizzazione delle scenografie e l'aiuto di Gigliola, che realizzava i costumi di scena. Metteva in scena perlopiù spettacoli con i bambini delle scuole che, sebbene non riuscisse ad ammetterlo, lo riempivano di soddisfazioni.
Dal palco le giungevano le voci squillanti di Wendy, John e il piccolo Michael, mentre fingevano di volare nei cieli spruzzati di stelle insieme a Peter Pan. Quattro piccole figure che si rincorrevano orgogliose dei loro vestiti di scena, copioni scarabocchiati in mano e una fantasia gigantesca nel cuore.
«Eccola Wendy, l'Isola Che Non C'è! La seconda stella a destra, poi si volta e via sempre dritti!», urlò un bimbetto con i capelli rossi, tenendo per mano la sua compagna bionda, un po' intimidita.
«Porca l'oca! Combatteremo con i pirati e danzeremo con gli indiani! Andiamo!», esclamò un minuscolo Michael dalle guance paffute, i bottoni del pigiama che non si chiudevano del tutto.
Gaia rimase a guardarli divertita, mentre disponeva le scenografie incomplete su un tavolo al lato del palco. Colori a tempera e cartelloni la aspettavano ormai da giorni e suo padre era impaziente di finire almeno quella parte dello spettacolo.
Il pennello scivolava sulla carta intinto di blu per il cielo o di giallo per le stelle, mentre nella mente, ipnotizzata dal movimento, le scorrevano i pensieri; si ricordò all'improvviso delle maschere, inducendola a richiamare l'attenzione del padre.
«Pà!»
Bortolo la raggiunse, un po' infastidito dall'interruzione.
«Avevo una domanda da farti, una curiosità.»
«Veloce, che dobbiamo finire la scena.»
«Che cosa sono le maschere? Cioè, no, riformulo. Perché una persona collezionerebbe centinaia di maschere? Che significato potrebbero custodire, oltre a quello di divertenti passatempi?»
Adesso che aveva posto la domanda avrebbe voluto ritirarla, vedendo lo sguardo sconcertato del padre.
«Bah, ognuno è libero di collezionare quello che gli pare, ne ho viste di cose strane in questi anni, anche da gente irreprensibile. Chi è questa persona?», le chiese lui, sospettoso.
«Ah, un artista, uno degli amici di Leone», rispose, rimanendo sul vago.
«Una banda di fannulloni, a mio parere! A ogni modo, Gaia, la maschera è un antico artefatto che evoca molte cose. Si tratta di un intreccio di credenze, usanze e simboli. Era usata non solo per divertimento, ma anche nei riti religiosi, pagani soprattutto. Continua a far parte della nostra vita anche oggi, nelle rappresentazioni teatrali o nei carnevali, ad esempio. Sono simboli...» Fece una pausa. «Forse non è cos'è la maschera che dovresti capire, ma chi ci si nasconde dietro. Chiediti cosa si cela, cosa si vuol occultare con essa e troverai l'anima di chi la porta. Non sempre sono visibili, però, alcuni le indossano senza che tu possa vederle», le spiegò, infervorandosi in un argomento che lo interessava personalmente.
Gaia arricciò il naso, incerta.
«Io starei distante da gente del genere, non sai mai cosa potrebbero nascondere.»
Poi si allontanò, raggiungendo i bambini che si stavano litigando delle spade di legno.
Rilassata dal lento scorrere del pennello sulla carta, Gaia rimase a lavorare sulle scenografie fino a tardi, gli occhi a fuoco sulla carta, la mente rinchiusa in se stessa. Sensibile solo ai suoi pensieri, che cozzavano confusi contro le pareti del cranio, si lasciò sfuggire l'ora e quando pensò di tornare a casa, gli occhi bassi, l'attenzione rivolta esclusivamente al movimento cadenzato dell'alluce del piede sinistro, era già tardi.
Se ne rese conto solo entrando in cucina, perché l'aria schioccava di scintille. Mentre un'onda di elettricità negativa la investiva, Gaia rimase in sospeso sulla porta della stanza, un piede dentro e uno fuori. Mamma e papà le davano le spalle e solo Leone alzò gli occhi a guardarla, incurvando le sopracciglia, mentre sbocconcellava un pezzo di pane.
«Sono tornata! Avete già mangiato?»
«Hai idea di che ore siano, Gaia?», le chiese il padre con voce pericolosamente atona.
La fastidiosa sensazione di essere eternamente sotto controllo la irritò e la sopraffece.
«Ero a teatro a lavorare sulle tue scenografie, papà, non in giro.»
«La regola è che la famiglia mangi insieme tutte le sere alle sette e mezza, ti avevo avvertito di metter via e tornare a casa.»
«Non c'è alcun motivo perché voi per una sera non possiate mangiare senza di me, con Leone lo facciamo sempre», rispose risentita, guadagnandosi un'occhiataccia dal fratello.
«Bene. Se lo ritieni giusto, fai pure. Le regole in fondo non ti hanno mai interessata, giusto? Sei concentrata solo sui tuoi colori, sul tuo lavoro così essenziale, sulle tue passeggiate nel bosco. Tutto ciò che ci riguarda, ti scivola addosso.»
A ogni frase il viso di Bortolo aveva aumentato gradazione di rosso proporzionalmente al tono della voce.
«Il mio lavoro? I miei colori? Adesso cosa c'entrano? Possibile che tu riesca a notare solo quello che non ti va di me?»
Adesso il gioco era a chi urlava più forte.
«Sto cercando di darti una direzione nella vita, non hai più quindici anni!»
«Che ne sai, tu, di quale sia la mia direzione?»
«Ora basta, smettetela. Non ha senso urlare. Gaia, siediti e mangia», intervenne Gigliola.
Ma ormai il risentimento aveva teso tutti i nervi della ragazza, pronta a scoppiare alla minima provocazione. Il padre aveva toccato punti troppo sensibili, troppo impregnati di desideri e sensi di colpa. Perciò, come una furia, Gaia afferrò un pezzo di pane dal tavolo e uscì nel giardino sul retro, sbattendo con forza la portafinestra della cucina.
Si diresse verso il torrente.

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