Capitolo 15

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Massimo tornò e la vita nel bosco ricominciò come nulla fosse accaduto: lui e Diana lavoravano fianco a fianco durante il giorno e al calar del sole l'uomo scompariva tra gli alberi.
Una sera, tornando a casa ricoperta di polvere, la ragazza, sfinita, espresse il desiderio di potersi rinfrescare prima di cena.

«Andate pure senza timore», la rassicurò l'uomo. Lei s'incamminò fino al torrente, ma scelse inavvertitamente un punto ben visibile dalla casa. Affacciandosi alla finestra, Massimo rimase abbagliato dalla bellezza della ragazza che, completamente scoperta, mostrava la pelle candida alla Luna. Diana canticchiava sommessamente e dondolava le braccia nell'acqua fresca, lasciandosela scorrere tra le dita...


Angela, lo devo ammettere, mi prende troppo quella ragazza.
Sarà il corpo, il sorriso, le tette, che ne so... mi parte una smania quando la vedo...
L'ho spiata. Stanotte.
Lo so, lo so quello che mi avresti detto!
«Ma che? Mi sei diventato un guardone?», e poi mi avresti preso a pugni; ma anche se è successo tutto per puro caso, lo rifarei subito.
Per quanto sonno avessi, solo immaginarmi di dormire nel carro mi faceva pensare al pollo arrosto della mamma, perciò mi ero sdraiato su un telo appena dentro la boscaglia; l'umidità della notte mi avrebbe macerato le ossa, ma sempre meglio di essere costretto a scuoiarmi vivo per sentire quel poco di fresco che c'era nell'aria, se c'era.
Raffa russava come un trattore e non c'era verso di farlo andar via, perciò sonnecchiavo, sui piedi il solletico dell'erba che ondeggiava al ritmo del suo sbuffare. Succede però che nel momento in cui qualcosa di fastidioso ma sopportabile smette, ti svegli di soprassalto; e se sei sveglio e vedi il tuo alano con il muso alzato a scandagliare occhi naso e orecchie il circondario, ti metti in allerta, giusto?
Così l'ho vista ieri sera, di nuovo una macchia nera si muoveva incorporea sul sentiero che s'inoltra nel bosco.
Camminava spedita, sicura, ma senza la tipica fretta di chi scappa da qualcosa o ha paura del buio.
È stato più forte di me, credimi. L'ho seguita.
So che se fossi qui alzeresti gli occhi al cielo e senza dire niente incroceresti le braccia al petto, con il tuo solito atteggiamento di rimprovero... ma chissenefrega, non ho resistito.
Avevo cominciato a immaginarmela nuda mentre s'imbrattava del sangue di qualche bestia, cantando inni a qualche dea pagana, o mentre s'incontrava con una mezza dozzina di uomini, o anche donne, perché no, e si dedicava a orge selvagge tra le felci del sottobosco.
In entrambi i casi dovevo vederla, ti pare?
Così l'ho seguita di nascosto, lasciando questa volta Raffa legato al carro. Se fossi stato costretto, contro la mia volontà ovviamente, a partecipare a quegli incontri multipli, almeno lui si sarebbe salvato.
In ogni caso, credo che potrei propormi come agente segreto: il mio è stato un pedinamento perfetto, non si è accorta di niente. Mi sono destreggiato tra grossi massi, tronchi di carpine e qualche basso cespuglio, che non sempre mi rendevo conto essere ortiche o rovi pieni di more: domani allo specchio mi vedrò come "Edward mani di forbice". Non chiedermi come faccio ad aver visto quel film, a volte bisogna fare questo e altro per un paio di baci.
Quel bosco è un maledetto labirinto, non so come ho fatto qualche sera fa a non piantare il naso per terra, attraversandolo di corsa e al buio. Il sentiero era stretto e s'inoltrava tra gli alberi seguendo l'andamento del terreno, una via di mezzo tra le montagne russe e un percorso a ostacoli, disseminato di vecchi faggi caduti, buche invisibili ricoperte dalle felci e sassi che spuntavano ovunque; il tutto nel buio più completo.
Tallonavo Gaia a una cinquantina di metri di distanza e fortunatamente lei proseguiva con una pila in mano, così mi era più facile tenerla d'occhio. Un'enorme palla di pelo scuro la tampinava silenziosamente: quel gatto è così grosso che mi chiedo come faccia ancora a muoversi.
A un certo punto siamo arrivati a un bivio. Un sentiero scendeva sul letto del torrente, l'altro lo scavalcava con un vecchio ponte di pietra ricoperto da centinaia d'anni di muschio.
Mi sono sorpreso nel vederla prendere quello verso l'acqua. L'ho guardata avvicinarsi con cautela, indossare un paio di scarpe di plastica e immergere i piedi nell'acqua gelida lanciando un grido sottile.
Il mistero s'infittiva e anche il bosco intorno a me.
Mi stai ascoltando, vero? Sembro la voce narrante di "Biancaneve e i sette nani"...
Seguendola mi sarei sicuramente fatto scoprire, così ho preso il ponte, cercando di infilarmi tra gli alberi e tenendomi sempre rasente agli argini del torrente, rialzati di un paio di metri. Gaia proseguiva saltellando da un masso all'altro, superando pozze profonde, come se caderci dentro non avrebbe significato un bell'annegamento. Avevo fatto bene a non darle tanta intelligenza.
Siamo andati avanti per dieci minuti buoni, addentrandoci così internamente nella selva che nessuno dal paese avrebbe potuto sentire un qualunque grido, di dolore o piacere che fosse; poi si è fermata.
Era arrivata a un'ansa del torrente che svoltava leggermente a sinistra e, mentre Gaia raggiungeva la parete rocciosa sull'altro argine, mi sono nascosto dietro a un grosso masso lì vicino, in attesa. Il muschio aveva ricoperto il tronco caduto di un carpine, rendendolo simile a un soffice cuscino; io ero stufo marcio di camminare, perciò mi ci sono seduto. Il fresco e l'umidità dell'aria formavano una bassa nebbiolina illuminata dalla Luna e la figura davanti a me dava più l'impressione di un fantasma che di un essere umano.
Gaia si è fermata in una spiaggetta striminzita; ha acceso una piccola candela e ha messo in borsa la torcia. Nel buio il suo bel faccino si è illuminato e l'ho vista cincischiare con altri fiammiferi; a poco a poco una ventina di altri piccoli lumini hanno rischiarato un ampio buco, una grotta poco profonda che disegnava un arco basso. Il pavimento era disseminato di oggetti: piccole ciotole, barattoli e tessuti sparsi disordinatamente; il tutto è stato presto raggiunto dalla consunta borsa di pelle.
Ok alla prima versione del covo di una strega, anche se purtroppo non al sesso di gruppo, perché Gaia era da sola. Anche per quella volta mi era andata male.
O forse no. Perché d'un tratto si è sganciata la mantella nera e l'ha lasciata cadere da una parte. Sotto portava una camicia semi trasparente. Non ne ho capito l'utilità finché non l'ho vista passare di fronte a una candela: era l'unica cosa che indossava. Il tessuto le sfiorava la curva dei fianchi generosi e l'ombra scura dei capezzoli s'intravedeva anche a quella distanza.
Avevo già aperto la bocca fino a slogarmi la mandibola, quando Gaia ha afferrato quello stramaledetto spillone che tiene sempre tra i capelli e l'ha mandato a fare compagnia al mantello; i capelli si sono sciolti a cascata, ma non mi ero certo aspettato l'autentica coperta di riccioli scuri che le ha abbracciato le spalle, la schiena, arrivando a coprire quel sedere perfetto e addirittura le cosce. Se prima ero solo accucciato tra le felci, in quell'istante le mie gambe hanno ceduto, mandandomi col culo per terra a stringere tra i pugni foglie e sassi, i pantaloni improvvisamente diventati troppo stretti.
Maledizione, giuro che stavo per buttare tutto a quel paese e scendere lungo il declivio dell'argine, anche rischiando di scartavetrarmi ogni centimetro di pelle, per raggiungerla. Ma ho fatto il bravo, mi sono trattenuto e ho continuato a spiarla.
Era bella. Cristo, Angela, se lo era; non della bellezza perfetta di Fiocco o del fascino esotico di Zaira, ma un'autentica visione: una ninfa dei boschi cui donare l'anima in cambio di un bacio; una fanciulla da far danzare a piedi nudi sull'erba fresca fino all'alba; una ragazza con cui fare l'amore per ore, senza mai stancarsene.
L'ho osservata aprire la borsa di pelle e cavarne fuori un lettore musicale e una mezza dozzina di sacchetti di stoffa. Li ha svuotati riempiendo il pavimento di sassi, che alla luce delle candele pareva fossero di colori diversi, poi ha afferrato un'ampia ciotola ed è andata a riempirla con l'acqua del torrente, si è infilata le cuffie, agganciandosi il lettore in vita e ha preso uno degli oggetti.
Cantava, mormorando a bassa voce e dondolava leggermente i fianchi, costringendomi a stare immobile con forza sempre maggiore. A un tratto i miei occhi si sono concentrati sul movimento delle sue mani e ne sono rimasto affascinato.
Dipingeva. Gessi colorati, azzurri, viola, arancio: li grattava sulla roccia o li polverizzava, prendendoli a piene mani e diluendoli nell'acqua. Trasformava la nuda parete della grotta, la ricopriva di emozioni e forme. Usava mani e piedi, ma anche la pancia e i fianchi; il seno e le gambe colavano di colori diversi e il suono sommesso della sua voce rimbalzava tra gli alberi.
Cosa non avrei dato per diventare quella parete toccata, accarezzata, strofinata. Ogni volta che la mano di Gaia tracciava una nuova linea, il ventre mi formicolava e in tutto il corpo mi si diffondeva una carezza lieve.
Poi, all'improvviso, qualcosa è cambiato.
Forse la musica, forse i suoi pensieri si erano lasciati andare troppo a briglia sciolta, l'ho vista bloccarsi sul posto, le mani e il viso imbrattate di colore; è caduta improvvisamente in ginocchio, incontrando la pietra con un secco "toc". Stupito, ho cercato di avvicinarmi.
Magari aveva preso qualcosa di allucinogeno, che ne so, o forse stava male. Poi però ha afferrato altri colori scuri, il nero, il blu, il grigio, il rosso cupo e si è messa a mescolarli sul pavimento apparentemente a caso, lasciando sfogare una rabbia sfociata per non so che ragione.
Alla fine ha lanciato un urlo, sommesso, non da svegliare il bosco, ma triste. Il mio corpo da caldo è diventato di ghiaccio. Piangeva, singhiozzava, la curva della sua schiena sobbalzava angosciata. Infine si è accasciata da un lato. In un primo momento ho pensato di correre ad aiutarla; poi però si è alzata lentamente e ha abbandonato il lettore musicale da una parte.
Nel frattempo aveva cominciato a cadere una pioggia leggera e in lontananza si stava avvicinando un temporale, carico di acqua e tuoni.
Ero ipnotizzato, la seguivo con lo sguardo mentre si avvicinava al torrente e lentamente s'immergeva inginocchiandosi nell'acqua bassa e fredda, sciacquandosi via il colore dalla camicia, dalla pelle, dandosi quasi piacere nell'accarezzarsi.
Quando è arrivato il temporale, lei non si è mossa. Praticamente nuda, appena immersa nel torrente, donava il viso alla pioggia scrosciante, i lunghi capelli scuri bagnati e pesanti, l'acqua che le scorreva sul petto, gli occhi chiusi. Lì ho capito che non l'avrei più guardata allo stesso modo.
Aveva perso le sue maschere.
Siamo rimasti così per non so quanto tempo. Finché lei si è rimessa il mantello, si è raccolta i capelli, ha sistemato la sua roba ed è tornata da dove era venuta; io non lo so, forse l'ho seguita subito, forse ho aspettato cinque minuti, o un'ora. Adesso mi trovo qui. Confuso.
Torna Angela, per piacere.

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