Capitolo 12

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Diana cercava in ogni modo di rendersi utile, ma i risultati non erano dei migliori: le sue pietanze finivano irrimediabilmente agli uccelli per il gusto tremendo o l'eccessiva cottura, i panni da lavare spesso scappavano, trasportati dal torrente e una semplice spazzata al pavimento riusciva a ricoprire di polvere ogni oggetto della casa.

La ragazza, frustrata dalla propria incapacità, un giorno abbandonò la casupola e s'inoltrò nel bosco. A sorpresa, un grosso gallo uscì da un cespuglio, ignaro della sua presenza. Istintivamente Diana prese il laccio che le stringeva l'abito in vita e con quello fece roteare un grosso sasso, lanciandolo sull'animale. Il sorriso che sfoggiò tornando a casa con la preda, le illuminava il viso...


Il mattino dagli occhi di perla sorride alla cupa notte e screzia di bagliori le nuvole dell'oriente. Il chiazzato buio si ritrae barcollante come un ubriaco, dal sentiero del giorno e dalle infuocate ruote di Titanio.
Camminava lenta, solleticata dall'umida carezza dell'erba contro i piedi nudi. La notte aveva continuato il suo cammino, abbandonando al suo passaggio una scia di gocce trasparenti. Il chiarore mattutino del primo giorno di maggio si affacciava lento, concedendo ai tordi e ai fringuelli il tempo per salutarlo.
Adesso, prima che il fiammeggiante sole asciughi la rugiada della notte, questo paniere deve essere riempito di radiche velenose e di fiori succosi.
La gonna le dondolava intorno alle caviglie, scontrandosi con il lento ondeggiare del vecchio cesto di vimini, mentre le sue dita avvolgevano decise e delicate steli di lavanda, petali di calendula e fiori di tarassaco.
La terra che è culla della natura ne sia anche la tomba e così il suo sepolcro sia il ventre dal quale essa ha avuto vita. Noi, creature di diversa natura ma tutte sbocciate dallo stesso grembo, succhiamo il suo materno petto.
Accompagnava la raccolta con una dose generosa di acqua limpida e sali, per ringraziare il cavolo rosso delle sue belle foglie violacee e la salvia e la menta per il loro aroma.
Molti di noi sono ottimi di virtù, e nessuno ne è privo, ma pure siamo tutti diversi. Grandi e potenti sono le qualità delle piante, delle erbe, dei sassi e le loro qualità sono reali. Non v'è sulla terra malvagità, per quanto trista, che non rechi un bene; e nulla v'è di buono che non dirazzi se cade nell'abuso. La virtù, male applicata, si muta in vizio e il vizio può elevarsi fino alla bontà.
Un sorriso sereno le illuminava finalmente il viso, mentre a occhi chiusi ascoltava il vento scorrerle tra i capelli sciolti fino alla vita.
Nei petali di questo fiore sono insieme un veleno e una medicina. Se lo odori ti rallegri; se lo assaggi, tutto, anche il cuore, si spegne in te. Nell'uomo, come nelle erbe, vivono due opposti sovrani: la grazia di Dio e la volontà del bruto: il baco rode subito la pianta in cui predomina il peggiore dei due.
Gaia ripeteva abitualmente dentro di sé le parole di frate Lorenzo ogni volta che usciva il mattino presto a raccogliere erbe nel giardino della madre. Le aveva imparate a memoria per far piacere al padre, anni prima: allora lui metteva in scena "Romeo e Giulietta" nel Teatro Comunale e lei gli gironzolava attorno, affascinata.
Al tramonto, quando i merli avrebbero accompagnato l'assopimento della città, si sarebbe chiusa nella rimessa di legno affiancata alla casa per compiere le sue "magie da strega", come le chiamava suo fratello; ma ora, con le gambe nude, il cesto pieno di odori al suo fianco e il sonno che ancora le appesantiva gli occhi, si limitò a distendersi nell'erba da tagliare, decisa a incontrare il sole al suo sorgere.
Si era appena addormentata coperta di rugiada, quando una carezza delicata le scostò i capelli dal viso. Gigliola le stava seduta accanto, i lunghi capelli chiari sciolti e spettinati sulle spalle, le ginocchia abbracciate al petto, guardando il cielo schiarirsi e farsi violaceo.
«Raccogliamo anche foglie di ortiche e melissa», le disse sorridendo.
Eccola, la sua mamma. La donna che era e che era sempre stata, persa durante il giorno nei ruoli che s'imponeva. Rilassata, equilibrata, selvatica. Si poteva incontrarla solo al sorgere del sole e solo in giardino, seduta tra le sue piante, in attesa del nuovo giorno.
Si alzarono insieme e, muovendosi nei vestiti morbidi e svolazzanti, raccolsero le ultime foglie, raggiungendo poi la casupola di legno poco distante dalla casa, dove appoggiarono il raccolto.
«Ci vediamo stasera», disse Gaia alla madre, parlando a bassa voce come se avesse timore di svegliare qualcuno. Passandole accanto, le abbracciò le spalle e poi uscì correndo dalla rimessa. Infilandosi un paio di sandali sui piedi nudi, afferrò veloce una coperta e si fiondò alla pasticceria Crema, che apriva presto, per raccattare la colazione; la madre di Ambra l'aspettava con un sacco già pronto colmo di dolci poco dietetici. Si diresse subito verso il bosco, raggiungendo in pochi minuti una radura infestata dai lillà in fiore. Stese a terra la coperta e ci si sedette, in attesa dell'amica.
Aveva provato a seguirla una volta, nelle sue escursioni: e aveva giurato mai più.
Non c'era sensazione simile a quella che aveva provato, o meglio l'assenza completa di emozioni e pensieri. La mente poteva fissarsi solo sul sentiero quasi verticale che scendeva dalle pareti rocciose intorno a Sirene e attraversava, in modo piuttosto sconnesso, tutto Bosco Cupo. La concentrazione di adrenalina nel sangue in quegli istanti l'aveva esaltata, i muscoli degli avambracci e dei polpacci tesi fino allo spasimo. Non c'era spazio per il sudore ed era impossibile pensare a qualsiasi cosa che non fosse la ruota anteriore della bicicletta che, suo malgrado, si era trovata sotto il sedere.
Buttati, le aveva detto, e si era lanciata. Poi la sua unica preoccupazione era diventata quella di evitare di cadere e di aprirsi una guancia o un fianco rotolando a tutta velocità contro qualche masso. Di certo era stato un ottimo modo per eliminare completamente dalla testa ogni preoccupazione, ma a quel punto riteneva che la cura fosse peggiore della malattia.
Ambra sbucò all'improvviso tra gli alberi, entrando in scivolata nella radura: la corta tuta da ciclista le aderiva sui muscoli tesi e i capelli biondi le svolazzavano spettinati intorno alle spalle, ma il resto del corpo era coperto da ginocchiere, paragomiti, protezioni per la schiena e pettorina. La testa era riparata da un grosso casco da moto e gli occhiali le coprivano metà faccia. Furono le prime attrezzature che si tolse e gettò nell'erba.
«Le modifiche che ha fatto Simone sulla bici sono strepitose! Ha cambiato le manopole per una presa migliore delle mani e con le nuove sospensioni potrei scendere a occhi chiusi», gridò lei eccitata, andandole incontro senza fiato. Simone era suo fratello.
«Dimmelo quando lo fai che ti preparo già la fossa in fondo, così non dobbiamo far lo sforzo di trascinarti su», le rispose Gaia con acidità dettata dalla preoccupazione.
Ambra si sedette con un mezzo sorriso, buttandosi improvvisamente contro di lei con una spallata.
«Dai, che ti è piaciuto! Quand'è che lo rifacciamo?»
«Scordatelo Ambra! Dovresti rapirmi e legarmi.»
Poi prese il sacco dei dolci e lo dondolò sotto il naso dell'amica. «Avanti, facciamo colazione, ragazza.»
Passarono un paio d'ore chiacchierando, poi si avviarono senza fretta verso lo studio medico, pronte per i compiti del pomeriggio.
Alla fine del turno, per quanto la giornata di tirocinio fosse stata stancante, Gaia pensò solo ad avvolgersi nei profumi delle erbe messe a essiccare la mattina e, a costo di arrivare in ritardo a cena, si diresse alla rimessa. Sua madre la raggiunse pochi minuti dopo.
La stanza odorava di fresco, di erbe e vernice ed era stipata di cianfrusaglie che sarebbero dovute esser buttate via da anni, ma che "potrebbero sempre servire".
Un massiccio tavolo tarlato occupava la maggior parte dello spazio e una vecchia scala di legno fungeva da spalliera da cui scendevano, a mazzi, fiori di ogni tipo, lasciati lì a seccare nella penombra del garage.
Lavorando fianco a fianco, Gaia e Gigliola disposero con attenzione le erbe sul tavolo, curandole e legandole assieme.
Alcuni fiori raccolti settimane prima erano già essiccati e Gaia li sciolse dai nodi, aprendoli con attenzione. Li sostituì poi con quelli freschi, e circondata dai profumi preparò varie ciotole colme d'acqua, spezzettandoci dentro petali e foglie di diversi colori e spessori: viola mammola per l'azzurro, petali di rosa e lavanda per il rosa, calendula e tarassaco per il giallo, salvia e spinaci per il verde, cavolo rosso per il viola, legno carbonizzato per il nero, barbabietola e fitolacca per il rosso. Erano fortemente coloranti e sarebbero rimasti in infusione per qualche notte.
Nel frattempo la madre si occupava delle erbe per la cucina e di quelle curative, spezzettando le prime in un vecchio mortaio di pietra e disponendo le seconde su griglie impilate in scaffali, dove l'aria poteva circolare senza farle ammuffire.
Lavoravano in un silenzio spezzato solo dal battere ritmico del mortaio.
L'acqua colorata giorni prima aspettava in un angolo e Gaia, le mani coperte dai guanti, la filtrò e la mescolò con la quantità giusta di polvere di gesso. Colata in lunghi e stretti stampi rettangolari, si sarebbe asciugata perfettamente in un paio di giorni. Spezzati e raccolti in sacchetti di iuta, i gessi colorati si accumulavano sugli scaffali della rimessa, a far da scorta per l'inverno.
Concentrate sul loro lavoro, madre e figlia non si accorsero del tempo che passava finché Bortolo non venne a chiamarle per la cena. Mangiarono poco e in fretta, perché quella sera Sirene era in festa e il sindaco Signori aveva promesso una strabiliante sorpresa.

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