Capitolo 10

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La stessa sera, durante la cena, Massimo piantò gli occhi sul viso arrossato e stanco della ragazza.

«Quindi il vostro nome è Diana. Potevate lasciare che i soldati del re mi uccidessero, sareste libera», le disse brusco.

«Non avrei potuto; ma la prossima volta abbiate la decenza di non ascoltare le altrui conversazioni», rispose lei arrossendo dalla vergogna.

«Andate, allora. Lasciate libero me! Il vostro affetto non mi è di nessuna utilità», ringhiò l'uomo.

«La mia testa è vuota come una castagna vecchia. Mio malgrado siete la mia unica sicurezza, non scambiate timore per tenerezza...»


«Come fai? Ti ho salvato dal torrente, ti dò da mangiare, ma cosa ti impedisce di andartene per i fatti tuoi e tornartene a bisogno come tutti i gatti normali? Cos'è che ti lega a me?»
Le grandi domande filosofiche sulla vita le vorticavano nel cervello, mentre minuscoli sassolini s'infilavano tra i suoi capelli, nelle scarpe, sotto la camicia. Gaia, sdraiata a pancia all'aria sulla spiaggia ghiaiosa del Rio Corto, parlava con Gatto riempiendosi gli occhi di stelle e il naso di umidità. Guardava quella povera bestia, costretta per onore a seguirla nella sua intricata esistenza da quando l'aveva trovata mezza annegata nel bosco in riva al torrente. Non l'aveva più lasciata e la deliziava della sua grassa e pelosa presenza in ogni momento della giornata. Tranne quando un cane-mucca decideva di inseguirla, ovviamente.
Il senso di appartenenza a qualcosa o a qualcuno. Un animale lo capiva meglio di lei.
«Forse avrei dovuto affogarti.» Saresti libero.
«E condannarti alla vita più noiosa e pacifica del mondo, privandoti della mia presenza?»
La voce spuntò dal nulla, mandandole il cuore in tachicardia.
Per il dio degli scocciatori! Un po' di pace, per piacere, non chiedo di più. Gaia chiuse gli occhi e sbuffò rumorosamente, sperando ingenuamente di farlo scomparire nel nulla.
La ghiaia si mosse e Michele si allungò accanto a lei.
«Ti ho forse invitato?»
«Caspita, sputi veleno stasera, scricciolo. Hai litigato con mamma e papà?»
Piglia pure in giro.
La ragazza decise di non rispondere, ma la sua pelle traditrice cominciava a reagire alla presenza di Michele, rabbrividendo di attesa. Gatto decise in quel momento di staccarsi dalla contemplazione del nulla per andare in suo soccorso e infilarsi tra lei e il mangiafuoco.
«Hai anche la guardia del corpo artigliata, sono a posto», rise lui.
«Ma dimmi, non hai altro da fare che star qua a tediarmi? Dormire, per esempio.» Gaia non riusciva a impedirsi di rispondergli male, né di sbirciarlo con sospetto. L'ultima volta che si erano visti l'aveva guardata come se fosse un insetto molesto.
Michele stette un paio di minuti in silenzio, per niente offeso dal suo tono.
«Dimmi, Gaia. Da dove viene tutto questo odio? In fondo, oltre ad aizzarti contro la mia belva, non ti ho fatto nulla di male. Ah, e sto parlando del cane, ovviamente», mormorò malizioso girandosi verso di lei.
Un pugno minuscolo e micidiale spuntò dal nulla e s'infilò violento e deciso tra la quarta e la quinta costola di sinistra, svuotandogli un polmone. Gaia si lasciò sfuggire un risolino nervoso, che si spense all'istante quando l'alito caldo del mangiafuoco le sfiorò un orecchio, coprendola di brividi.
«Sei proprio sicura di non sapere perché la mia vicinanza ti procuri tanto fastidio? Non sarà forse perché la tua pelle si scalda quando la sfioro?», le sussurrò accarezzandole il braccio nudo con le dita.
Il corpo di Gaia reagì all'istante. Avvampò, il ventre si tese, cominciò a sudare; ma s'impose di stare immobile e apparentemente indifferente.
Serpe dalla doppia personalità.
«Mi irriti, questo è tutto ciò che sento quando ti avvicini.»
Femmina cocciuta. Michele lasciò stare, per il momento, beandosi della consapevolezza del suo disagio.
Non parlarono più; intorno a loro rimasero solo il vento, lo scorrere lento del Rio Corto e le fusa di Gatto.
«Sai che costellazione è quella sopra di noi?», chiese lui all'improvviso, tentando un approccio più romantico. Non funzionò.
«Senti, ma cosa vuoi da me? Mi spaventi, mi molesti, mi segui, mi curi, mi cacci e torni a fare il simpatico. Hai l'umore più traballante di una foglia sbattuta dalla tempesta e comunque ti ritrovo sempre tra i piedi», sbottò Gaia esasperata. Non riusciva più a far ordine tra tutti i sentimenti e sensazioni. Cominciava a sentirsi stupida ogni volta che apriva bocca.
«Una volta riconoscevo le costellazioni a colpo d'occhio. Angela le sapeva a memoria e ha insistito parecchio perché le imparassi anch'io. Siamo a fine aprile, il primo di maggio è domani, perciò si potrebbero intravedere il Leone e la Vergine, ma non saprei più dirti dove puntare l'occhio. Riconosco al massimo la Luna», continuò Michele, come se la ragazza non avesse mai fiatato, ma ben consapevole del suo sguardo confuso e un po' allucinato. Se lei non avesse capito, avrebbe dovuto ammettere di essersi sbagliato e l'avrebbe lasciata stare.
Gaia spalancò gli occhi e girò il viso verso il mangiafuoco: era teso come una fionda e guardava fisso il cielo.
«Lei collezionava tutto ciò che avesse una storia da raccontare. Libri, stelle, persino maschere. Io però non ne ricordo più una.»
Michele sospirò; quelle sarebbero state le sue uniche parole sull'argomento, stava a lei comprenderle. All'indomani, con la luce del sole, si sarebbe sicuramente pentito di quell'istante di umanità, ma in quel preciso momento era sicuro che fosse ciò che Angela avrebbe voluto da lui.
Gaia respirò profondamente, rivolgendo lo sguardo alle stelle. Per un attimo, uno solo, mise da parte il suo malumore e tentò di comprendere quello che stava cercando di dirle lo strano ragazzo. Forse se avesse parlato meno e ascoltato di più l'avrebbe capito. Decine di domande le erano salite in gola: chi è Angela? Perché tieni le sue cose? Cos'era lei per te? Dov'è ora? Perché sei venuto a dirmelo? Non se la sentì di porne nemmeno una. Fece invece un respiro profondo e si costrinse a rilassarsi tra i sassi; allungò la mano verso Gatto, che le ronfava vicino all'orecchio e si mise a far scorrere distrattamente le dita nel pelo morbido.
«Quando eravamo piccoli, io e Leone ci stendevamo qui sulla sabbia e lui passava ore a inventarsi delle storie sulle costellazioni. La verità è che non ne conosceva una, ma ho capito solo dopo parecchi anni che non poteva esistere una stella chiamata "Procione Spadaccino". Però mi divertiva un sacco starlo ad ascoltare, ci rilassava; soprattutto se eravamo appena fuggiti da un litigio con papà.»
Michele si ritrovò a sospirare di sollievo e frustrazione assieme.
«Vi conoscete da tanto, allora», affermò brusco.
«Beh, da una vita direi, dato che siamo fratelli.»
Tutti i pezzi del puzzle combaciarono e Michele si sentì in un attimo decisamente stupido e stupidamente felice.
«Tuo fratello? Non l'avrei detto», commentò fingendo noncuranza.
«Ma certo, non hai notato gli stessi capelli lunghi e soffici?»
C'era una risata nella sua voce.
«Adesso che mi ci fai pensare, hai ragione. I suoi sono più splendenti, però.»
«Perché se li spazzola tre volte al giorno», rise Gaia.
«Non abbiamo molta confidenza, io e Leone; so che abita qui e che ha una sorella, ma non vi ho proprio collegati. Come potevo, poi? Le sue cosce non sono neanche lontanamente tenere come le tue, scricciolo.» Non era riuscito a trattenersi.
Due minuscole dita raggiunsero il suo fianco, pizzicandolo crudelmente, e contemporaneamente una zampa artigliata gli sfiorò di un pelo il naso, mentre il grosso felino bruno gli soffiava contro.
«Doppio attacco! Non vale!»
«Sei un tipo molto strano, mangiafuoco», sospirò Gaia verso le stelle. Era confusa, non riusciva a stare dietro a tutti quei suoi repentini cambiamenti di umore.
«Anche il tuo gatto», rispose lui, le mani aperte sul viso in posizione di difesa, guardando sospettoso la bestia leccarsi le zampe.
Girato su un fianco verso la ragazza, Michele si prese tempo per osservarla con attenzione, approfittando della sua concentrazione nella contemplazione del buio. Le braccia incrociate dietro alla testa, le mani infilate tra i capelli fissati con lo spillone, Gaia saettava gli occhi da una parte all'altra, il naso leggermente arricciato in una smorfia dubbiosa. I seni si alzavano e abbassavano a un ritmo rilassato e tutto il corpo se ne stava adagiato nella ghiaia.
«Sei mai stata oltre le mura di Sirene?», domandò lui all'improvviso, spezzando il silenzio.
Gaia spalancò gli occhi... perché no, non le era mai nemmeno passata per l'anticamera del cervello l'idea di passare il ponte. Era stata cresciuta con la convinzione che si dovesse avere paura di uscire dalla materna e protettiva Sirene. Certo, si era spesso domandata come doveva essere il mondo di fuori, studiato sui libri, ma stava bene; le sue fughe notturne saziavano quei rari momenti di frustrazione per la mancanza di qualcosa che ancora non riusciva a definire. Circostanze che erano aumentate con l'arrivo di Michele. In quel momento la ragazza provò la fredda sensazione di trovarsi in un'enorme gabbia, le cui sbarre non erano le mura della città, ma il suo stesso cranio.
Prendendola di sorpresa, dita lunghe e ferme strinsero le sue e la trascinarono in piedi.
«Vieni.»
Per una volta, Gaia non riuscì a rifiutare un ordine: assecondò la curiosità che le sgorgava dagli occhi. Il mangiafuoco la portò con tutta calma accanto al ponte di legno, a qualche metro dalla spiaggia.
«Pronta?», le chiese.
«No.»
«Bene.»
Michele scattò improvvisamente, tirandole il braccio fino quasi a staccarlo e inducendo le sue gambe a muoversi. Sempre più velocemente. Come se stessero fuggendo da una mandria di bisonti inferociti.
Alla fine del ponte Gaia esitò, rallentando, trattenuta da centinaia di mani invisibili, ma lui non la lasciò andare, anzi intensificò la stretta intorno alla sua mano, per infonderle sicurezza. Lo superarono in un soffio e lentamente si fece strada dentro di lei la consapevolezza di essere uscita. Fuori dalle mura. Fuori dalla città. Fuori di testa. Fuori.

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