Capitolo 3

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Un giorno sfortunato, durante uno dei suoi vagabondaggi, Diana incappò in un cinghiale poco propenso alla docilità. La belva, con gli occhi iniettati di rabbia, la caricò a muso basso, non lasciandole altra scelta che mettersi a correre a perdifiato tra la bassa boscaglia. La ragazza probabilmente sarebbe riuscita a fuggire, ma una radice s'intromise a tradimento sul suo cammino, facendola inciampare e cadere malamente. Con la brutale carezza della terra che le premeva il viso, Diana perse i sensi, abbandonata tra le felci...

Sfinita e senza fiato, Gaia stava quasi per crollare, quando pochi metri più avanti le apparve una grossa quercia attorniata da cespugli di lillà, un punto viola nella penombra.
La ragazza non esitò e, graffiandosi i palmi delle mani, riuscì a mettersi in salvo pochi secondi prima che la bestia la raggiungesse. Il cane, da parte sua, frenò bruscamente la sua corsa; accovacciandosi sotto di lei, si mise a leccarsi tranquillamente le zampe.
«Maledetto cane rognoso», sentenziò quando finalmente si sentì al sicuro, accasciata su un ramo a un paio di metri d'altezza. Non aveva mai corso tanto, lei che non lo sopportava.
Da domani mi metterò a dieta, promesso, pensava tentando di dare una calmata al battito del cuore e di rallentare il respiro.
Aveva bisogno di una posizione più comoda. Cinse il tronco dell'albero con entrambe le braccia e ci appoggiò sopra la guancia, nella speranza che le infondesse un po' di tranquillità e coraggio.
Nell'oscurità, frattanto, il ragazzo si avvicinava. Dal suo punto di osservazione, Gaia poteva benissimo intuirne la statura preoccupante e l'ampiezza delle spalle. L'avrebbe raggiunta alzando il braccio. Arrivato a poca distanza, tuttavia, crollò improvvisamente a terra, le ginocchia piegate al petto, la testa di un intenso rosso furioso incastrata tra di esse, la schiena che si alzava e abbassava al ritmo veloce del respiro ansimante.
Sta fresco se pensa che vada ad aiutarlo. Gli venga pure un collasso, pensava Gaia. Della sua figura s'intravedevano solo le lunghe gambe magre, coperte da pantaloni scuri. I piedi, totalmente illuminati dai raggi lunari, un po' la spaventarono: le scarpe erano di un numero così grande che Gatto ci avrebbe dormito comodamente dentro, ed era un felino piuttosto ciccione.
A proposito, dov'era finito? Era sicura l'avesse seguita nel bosco, ma probabilmente quel codardo se l'era svignata appena visto il cane. Quel traditore!
Piegato in due, respirando a pieni polmoni l'aria impregnata di fango e legno marcio, Michele si concesse intanto cinque minuti per contare trenta volte fino a dieci; solo per misericordia verso la ragazza, perché altrimenti l'avrebbe uccisa a furia d'insulti. Maledetta. Se ti si sono spezzate tutte le unghie e scorticate le dita, ti sta bene, sono pure contento.
Certo si rendeva conto che avrebbe dovuto tenere Raffa legato al suo fianco e non l'aveva fatto; ma solo per averlo spaventato, spinto a correre nel bosco e privato di un meritato sonno, provava l'impulso di offenderla fino a farla piangere. Le mani addirittura gli prudevano, dalla voglia di stringerle il collo.
Infine si avvicinò all'albero, gli occhi puntati nell'oscurità, cercando di dare una forma alla macchia nera appollaiata sopra al ramo. Poi la sentì.
Adesso Gaia era completamente sola, alla mercé di uno che poteva essere un assassino seriale; conciata a quel modo, poi. La pelle nuda era ricoperta da goccioline di sudore che si stavano raffreddando a causa dell'aria fresca del sottobosco, congelandole le ossa. Si sfilò la borsa di pelle e la allacciò a un ramo vicino per potersi coprire meglio. Di certo non sarebbe potuta scendere, messa com'era, sempre che ne fosse stata capace.
Quel tizio, oltretutto, più lo guardava uscire dall'ombra e meno le ispirava fiducia: capelli rossi arruffati intorno a un viso spigoloso e sarcastico, occhi così scuri da sembrare buchi neri. Le mani intrecciate dietro al collo, si avvicinava indolente, con eleganza quasi felina. Gaia si aggrappò istintivamente al tronco. Anche da quell'altezza poteva considerarlo un gigante: non che al suo confronto ci volesse poi molto, con il suo metro e cinquanta superava a malapena i bambini. Il ragazzo si piantò a gambe divaricate poco distante da lei. La fissava, un ghigno rabbioso che gli assottigliava le labbra. Brividi freddi le serpeggiarono lungo la schiena.
Qualcosa in quella ragazza lo rendeva inquieto. Michele non riusciva a spiegarsi la brutale sensazione che l'aveva colpito, come un violento calcio nello stomaco. Solo per averla guardata, per averla sentita lì, poco distante. Niente impulsi romantici, quello che gli aveva attraversato il corpo col romanticismo c'entrava poco. La voleva, questo era sicuro. Voleva toccarla, doveva toccarla. Non sapeva neppure che faccia avesse. Sentiva il suo respiro ansimante per la corsa, il suo calore; già s'immaginava di scoprirne il corpo sudato e di modellare tra le dita la sua carne. La carne di quelle cosce nude e lisce che gli penzolavano a pochi centimetri dal naso. Doveva entrare in lei. Voleva sentire i suoi gemiti. Voleva sentirla urlare.
Lo fece lui, decidendo che l'attacco era la miglior difesa.
«Si può sapere dove diavolo ti è finito il cervello per andartene in giro di notte nel bosco?»
Una voce fin troppo piacevole, maledetto lui.
«E tu? Che gran testa di caco marcio sei per lasciar libera una bestia così pericolosa?», replicò Gaia, guardandolo con tutto l'astio che riuscì a recuperare.
«Raffa è più innocuo di un pulcino, probabilmente sono le pazze furiose a innervosirlo.»
«Che questo grosso ramo possa infilarsi violentemente nel tuo fondoschiena», gli rispose lei con acredine, scandendo bene le parole.
Il ragazzo spalancò gli occhi: «Ma un bel "vaffanculo" era così difficile da dire?»
Lei sbuffò con fierezza e non si degnò di rispondergli.
Pronto alla guerra, Michele sentiva però prima il bisogno di toccarla, vederla in faccia, convincersi di essersi solo immaginato quell'attimo di feroce lussuria di qualche istante prima; così allungò la mano, offrendole gentilmente una tregua e un aiuto per scendere.
Gaia interpretò male le sue intenzioni e ringhiò minacciosa.
«Volevo solo darti una mano» sbuffò lui, spazientito più con se stesso che con la ragazza.
«Non ho bisogno di nessun aiuto. Vattene, sparisci, evapora! E portati via quella specie di mucca geneticamente modificata», gli ordinò gelida.
«Si dà il caso che sia un cane, un alano per la precisione.»
«Ti ho dato l'impressione che potesse interessarmi?»
Brutta strega acida. Rimani dove sei, stupida, e crepa lì, pensò Michele, lanciandole invece un secco: «Ok.»
Girando i tacchi, richiamò Raffa, dirigendosi poi verso il sentiero con una gran voglia di prendere a pugni qualcuno.
Gaia, decisa a mettere fine a quella situazione da sola, aveva lentamente cominciato a scendere dal ramo, finché non si era resa conto di essere troppo in alto. Graffiandosi la coscia sulla corteccia ruvida, le era sfuggito un lamento improvviso.
Arrivò a Michele come il più dolce dei suoni. Quando quella morbida voce gridò disperata lui si voltò, ghignando soddisfatto nel vederla tentare goffamente di allungare la splendida gamba verso il terreno e quindi, incapace di raggiungere i rami più bassi, risalire con fatica al punto di partenza. Non si era reso conto di quanto piccola fosse.
Aggrappata come una scimmia alla quercia, a Gaia sfuggì un singhiozzo avvilito. L'infastidiva l'idea di rimanere tutta la notte lì a ghiacciarsi il sedere o, peggio ancora, di umiliarsi chiedendo aiuto al mezzo matto con il cane-mucca.
Trattenendosi dall'alzare le mani al cielo per lanciare una soddisfatta e diabolica risata, Michele tornò indietro lentamente; arrivato all'albero, appoggiò la schiena sul tronco controllandosi distrattamente le unghie. Poi, incurante del disagio della ragazza, le rivolse un sorriso perfido.
«Non riesci a scendere, scricciolo?»
«No.»
Più che una risposta, era un ringhio.
«Vuoi una mano?»
Stava giocando con lei.
«No, grazie.»
Piuttosto rimango qui a farmi spremere dalle zanzare.
«Ne sei proprio così sicura?»
Silenzio.
«Ok, allora. Ci vediamo.»
«Aspetta!», lo fermò lei. «Forse un piccolo aiuto mi farebbe comodo.»
Michele non aspettava altro.
«Sì?»
«Sì», si costrinse a rispondere Gaia.
«Ti costerà», la avvisò con voce roca, appoggiandosi pigramente al grosso tronco.
Rospo malefico.
«Che cosa vuoi?», gli chiese Gaia, la guancia appoggiata al ramo, le ciglia lucide dalla frustrazione. Gli occhi del rosso si allargarono di colpo a quella domanda e lei si sarebbe bruciata i piedi sul fuoco vivo pur di potersela rimangiare.
«Non ti preoccupare, sarò magnanimo. Mi limiterò a pretendere le tue scuse migliori per gli insulti e una richiesta formale di aiuto con tanto di "per favore"», le disse angelico.
Decine di maledizioni e altrettante d'idee su come avrebbe potuto fargli del male fisico, una volta raggiunta una posizione più agevole, si formarono nella testa di Gaia.
«Scusa per gli insulti. Aiutami a scendere. Per favore», si costrinse a dirgli infine. L'acido nella sua voce avrebbe potuto sciogliere un muro d'acciaio spesso due metri.
«Ah, sai, non so. Non ti sento così convinta, forse dopotutto non vuoi realmente il mio aiuto», sospirò Michele, rivolgendole un sorriso fintamente innocente.
Gaia, provando un sentimento molto simile all'odio eterno, perse totalmente la pazienza.
«Senti, piantiamola con i giochi. Tu vuoi andare a dormire, io voglio andare a casa. Fa freddo, sono stanca. O mi dai una mano, o vai; nessuno ti ferma. O forse la verità è che, magro come sei, non riusciresti a sostenermi?»
Non era riuscita a trattenersi. L'espressione del ragazzo cambiò totalmente e lo sguardo divenne quasi pericoloso.
«Zitta e inizia a calarti giù. Mi hai già fatto perdere troppo tempo», le ordinò Michele, la voce cupa.
«Bene», rispose lei soddisfatta. «Dovresti solo darmi una base di appoggio, per il resto mi arrangio.»
Gaia fece cadere a terra la borsa di pelle e, scavalcando il ramo con entrambe le gambe, si lasciò scivolare lentamente, tenendosi aggrappata con le braccia mentre lui le stringeva un polpaccio.
La sua mano cominciò pigramente a risalirle la gamba, con apparente noncuranza, ma quando cominciò a stringerle la coscia, Gaia si pentì immediatamente di aver ceduto all'insano impulso di farsi aiutare.
Improvvisamente consapevole di ogni singolo dito che le percorreva la pelle scoperta, la ragazza allontanò il ginocchio da lui riportandolo con violenza contro il suo sterno, per avvertirlo di non oltrepassare il limite.
Quel colpo poco leggero svegliò Michele dai suoi sogni a occhi aperti e lo sbilanciò a tal punto da costringerlo ad afferrarla, avvinghiandosi ai suoi fianchi e appoggiandole una guancia sull'ombelico. Con la scusa di sostenerla il ragazzo ne stava assaporando tutta la morbidezza. Si rese conto che solo un unico inconsistente strato di tessuto lo divideva dal suo calore, perché sotto quella leggera camicia non portava assolutamente nulla.
Non ci poteva credere.
Dovette richiamare a sé tutta la sua capacità di autocontrollo, ma non riuscì a impedirsi di seguire un impulso improvviso e voltò la faccia verso la pancia della ragazza, appoggiandoci le labbra. L'istinto di morderla era così forte che Michele aveva già cominciato a scoprire i denti, quando lei lasciò la presa dal ramo e iniziò a scivolargli bruscamente addosso, costringendolo, suo malgrado, ad accarezzarle la schiena. Il corpo della ragazza, così pieno, soffice e caldo, lo indusse rapidamente a dimenticare di essersi imposto di fare il gentiluomo.
Ipnotizzata dalla grossa perla cupa aggrappata all'orecchio sinistro del ragazzo, Gaia si riscosse sentendone il naso premerle tra i seni. Perse totalmente la pazienza e, rabbiosa, gli conficcò le unghie nelle braccia, lasciandogli lunghi solchi rossastri e strappandogli un ringhio sofferente.
Colto alla sprovvista, Michele perse del tutto l'equilibrio e crollò a terra, trascinandosela addosso. Fece appena in tempo a girarla sotto di lui che gli arrivò, a tradimento, una mortale gomitata al naso, accecandolo.
Gaia non perse tempo a guardarlo; si alzò in piedi e fuggì nel bosco in un sospiro, il cuore che correva più veloce delle gambe. Il corpo stava tornando a casa automaticamente,ma la mente era confusa. Si sentiva nello stesso tempo istupidita, furiosa estranamente euforica.

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