Capitolo 8

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Il boscaiolo e la principessa smemorata iniziarono la loro convivenza sotto i peggiori auspici: temporali e acquazzoni fuori stagione impedirono all'uomo di lavorare e li costrinsero dentro la casupola. Massimo viveva solo da molti anni, i suoi genitori erano morti da tempo, perciò la presenza di Diana nel suo piccolo spazio vitale lo portò presto all'esasperazione. Una sera, dopo esser stato accolto da una cena bruciata, biancheria appesa al camino e fiori sparsi in ogni dove, la pazienza dell'uomo raggiunse i propri limiti: «Esco. Una grotta, il diluvio per compagno e more come desinare parranno il paradiso, al confronto...»

Angela. Cristo, mi manchi. Rivoglio indietro la mia nanetta.
Il canto della civetta e il chiarore delle lucciole gli entrano nella testa, portando a galla ricordi e pensieri tristi. La vede infilarsi ancora sotto le coperte con lui, alla ricerca di calore, e indicargli la finestra aperta: «Tu la sai la leggenda delle tre civette sul comò...?»
A volte il pensiero di raggiungerla diventa pressante e in quei momenti la sua voce lo raggiunge come uno sparo: «Hai troppo tempo! Trovati qualcosa da fare invece di pensare a scemenze simili: addestra pulci da circo, vendi statuine fatte con la mollica del pane o impara a ricamare le lenzuola, qualsiasi cosa, ma fallo per piacere!»
Così era diventato un mangiafuoco.
Avrei bisogno di parlarti, di raccontarti tutto quello che mi sta succedendo, le stronzate che mi passano per la testa. Vorrei vederti ridere, alzare ancora quei pugni minuscoli e tentare di colpirmi per quello che dico.
Ti racconterei di Gaia.
Dovresti vederla; probabilmente, gentile come sei, ti starebbe pure simpatica: uno scricciolo di ragazza con un sacco di curve e un carattere da vipera. Ho cominciato a litigarci ancora prima di conoscerla.
Mi affascina. Mi comanda il corpo con uno sguardo, costringendomi a seguirla come un coniglio a primavera.
Se avessi visto com'era terrorizzata la notte scorsa, quando Raffa si è messo a rincorrerla per tutto il bosco, mi avresti ucciso. Mi avresti incolpato come al solito.
Oggi però si è presa la rivincita, trattandomi da imbecille nel lancio dei coltelli. Quando mi sono reso conto che fingeva di fare l'impedita... Ci sono cascato in pieno. Per quanto la odi, le farei una statua. Sono sicuro che, nonostante tutto, tiferesti per lei.
Poi però ha visto le maschere. Le tue maschere, Angela. Mi ha raggelato, non dovevo farla entrare nel mio carro; anche se ci è entrata per caso.
Non volevo che le vedesse, come non volevo che mi vedesse qui al cimitero. Non sono affari suoi.
Ho tenuto tutto, nanetta, anche il tuo stupido violino. Sono sicuro che non ti ritroverò in quelle cose, ma non mi piace che la gente tocchi la roba tua.
"Ogni singola maschera racconta una storia, Michele", dicevi.
Mi descrivevi minuziosamente miti e leggende legati alle tue maschere: Giano bifronte, il dio che poteva guardare nel passato e nel futuro, la bauta di Venezia e la moretta, il medico della peste, Arlecchino e Colombina, e quante maschere piumate avevi collezionato! Adesso sono le ultime cose che vedo prima di addormentarmi. Cinesi, africane, indiane, usate per divertimento o nei rituali sacri. Occhi vuoti e un'unica anima. Non è forse questo che volevi tu? Essere qualcun'altro? Sì, e guarda dove sei finita.

Ogni giorno lei correva contro il tempo. Non vedeva la meta, né distingueva il percorso per raggiungerla, ma correva fino a sputare i polmoni dallo sforzo ed era libera, libera e felice.
Sirene le spuntava davanti all'improvviso con quelle case così pulite e ordinate, i giardini geometricamente curati, la gente sempre sorridente e quella dolce nenia che fluttuava nell'aria. Oltre il ponte era salva, quel vecchio e malridotto insieme di assi sconnesse era l'unico accesso alla città e dopo quello, il Bosco. Entrandoci, la percezione del mondo cambiava e così anche la sua anima.
Quanto ci aveva provato, centinaia di tentativi andati in fumo, decine di piani di fuga scoperti e altrettanti castighi ricevuti. Finché non c'era riuscita.

Sono andato a trovare Maria e Gabriele.
Dovevo, Angela, non ci sono andato volentieri.
Ti ricordi lui com'era? Il padre modello: dolce, sempre disponibile, severo al punto giusto.
L'uomo che credeva nel destino, il falegname dalle mani magiche. Ogni pezzo di legno che toccava diventava un'opera d'arte. Mi affascinava e tu mi spingevi ad ascoltarlo, a imparare da lui. Passava le ore a farmi seguire con un dito le nervature di ogni legno esistente a questo mondo.
«Presta ascolto, senti cosa vuole diventare», ripeteva all'infinito.
Inutile. Le sculture che vendo per arrotondare sono solo pezzi di legno intagliati, privi di anima. Invece anche solo uno sgabello costruito dalle sue mani raccontava una storia.
Quell'uomo viveva sulle nuvole. Adesso è solo l'ombra che le insegue.
Sono contento che tu non possa vedere come si è ridotto, anche se, per la verità, se tu fossi qui, il problema non si sarebbe neanche presentato.
Non parlava tanto nemmeno prima, ora è completamente muto. Muto, grigio, incurvato.
Guarda, Angela, come hai ridotto i tuoi genitori! Maria è un pallido fantasma che si aggira tra le stanze alla ricerca di qualcosa che non sa nemmeno lei... Lei! La virago! La supermammasindacorappresentante dei genitoripresidente del circolo di lettura e di chissà quante altre associazioni... La donna che riusciva a fare sette cose contemporaneamente usando le due gambe, le due braccia e tre diverse parti della mente!
Dolce come lo zucchero, attenta a ogni bisogno della famiglia fino a sfinirsi, trovava sempre il tempo per ascoltare, nonostante il lavoro in municipio che le prosciugava le forze. Maledettamente ansiosa, però: aveva paura di qualsiasi cosa, del mondo esterno, dalle macchine per strada alla gente che girava di sera in città, ma anche della casa, dai fornelli ai batteri. Terrorizzata in ogni istante che succedesse qualcosa, ha costretto la famiglia per anni a stare sotto una teca di robusto cristallo, controllata a vista da vicini e parenti.
Adesso a malapena si accorge dell'esistenza di altre persone in quella casa.
Lo so, lo so che non dovrei prendermela con te, ma diavolo Angela, che hai fatto?
Quella stronza di tua sorella è persino diventata un tesoro di ragazza. Pensa, Ariella si è messa a studiare, vuole diventare com'era sua madre...
Non riuscirà a farle tornare il sorriso.

L'aveva tradita. Gelosia. Invidia. Cattiveria. Qualcosa dentro Ariella le consumava l'anima da tempo, lasciandola in balia dei sentimenti peggiori. Era bastato un giorno, forse aveva intravisto Angela correre verso Sirene con il violino a tracolla e un sorriso splendido e aveva deciso di rovinarle la giornata. Sapeva che se la madre l'avesse scoperta, l'avrebbe fatta sorvegliare a vista.
Sbagliò obiettivo e per la fretta andò a dirlo al padre; lui non era come la mamma, lui diceva che la vita andava vissuta al massimo. Perché se una cosa doveva succedere, miracolo o tragedia che fosse, avrebbe trovato il modo di farlo, per quanto si cercasse di evitarlo.

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