Quel giorno d'estate non aveva assolutamente niente di estivo. Ania, una ragazza russa che avevo conosciuto al mare, era tornata in Russia senza avvisare anima viva.
Alla fine, non mi stava neanche troppo simpatica. Era superficiale e ingenua, non l'avevo mai definita "amica". Decisamente poche persone erano chiamate così, da me.
In più, il senso di "estate" svaniva, lavato via da quella pioggia che cadeva a dirotto, rinfrescando l'aria e pulendo le strade, picchiettando sul vetro della mia finestra.
Sì, se c'era una cosa che amavo fare ovunque era guardar fuori dalla finestra. E se mi piaceva quello che vedevo era una cosa positiva. A scuola non era un granché, ma a casa mi divertivo ad osservare tutto. Mi ero affezionata a quel paesaggio che particolare era per nessuno, solo per me.
Mentre stavo con la fronte appoggiata al vetro fresco, una sensazione piacevole mi percorreva tutto il corpo. Avrei avuto voglia di uscire fuori, e stare sotto la pioggia.
Amavo il rumore della pioggia, ma ancor di più ne amavo l'odore, e da dentro quella stanza era impossibile sentirlo.
Guardai fuori, poi la porta, poi di nuovo fuori e infine la porta.
Uscire mi avrebbe provocato un raffreddore micidiale, mi avrebbe obbligata a stare a casa per giorni, o mi avrebbe semplicemente rinfrescata e calmata?
Forse, insieme ai desideri di mare delle persone, avrebbe portato via anche la mia angoscia cronica.
Ma come al solito il mio buon senso vinse e no, non uscii.
Rimasi, invece, seduta alla scrivania a rigirarmi i pollici. Nives, per un motivo che non mi aveva detto (e che probabilmente neanche c'era), si trovava in Olanda insieme a sua madre e sua sorella Alicia.
Mentre pensavo all'Olanda, un ciuffo informe di boccoli neri mi cadde sugli occhi. Lo portai di lato con un sospiro. Lanciai un'occhiata al parcheggio che si trovava di fronte alla mia camera, attraverso il vetro. Una macchina rossa e piccola che non avevo mai visto vi sostava, una cosa strana, perché solitamente solo le persone che abitavano nel condominio parcheggiavano lì la loro auto.
Poi non ci pensai più, perché capii che era un'altra delle mie paranoie.
Avevo suonato la chitarra tutto il pomeriggio, e mi ero resa conto che non lo facevo da tantissimo tempo. Sicuramente proprio perché non riuscivo mai a ritagliare qualche ora per stare con il mio strumento preferito fra le mani.
E poi, perché ogni volta che i miei genitori mi vedevano con uno strumento in mano, mi urlavano contro di smettere di far baccano.
Avevo anche potuto osservare, con un sorriso, che non avevo dimenticato come si suonasse.
Quand'ero in prima superiore mi divertivo a scrivere testi di canzoni che alla fine non avrei mai cantato, ma erano versi talmente strani e fantasiosi che mi erano rimasti in testa per tutto quel tempo.
Il rumore della mia suoneria mi distolse da ogni pensiero, positivo o negativo che fosse.
Mi accorsi che era Francesco solo quando lessi il suo nome sullo schermo del telefono.
Feci scorrere il dito sulla scritta "rispondi", ed una voce roca mi parlò dall'altro lato.
«Gemma?»
«Chi, altrimenti?» sbuffai. L'ultima volta che avevamo parlato non era stata un'esperienza memorabile. Mi aveva chiamata "asociale e arrogante", in più mi aveva definita "troppo complicata". E lo ero, come potevo negarlo?
«Volevo scusarmi con te» mormorò «per l'altro giorno, sai...»
«Nessun problema» dissi subito. Non avevo voglia di discutere con nessuno, né tantomeno lui, che era stato uno dei pochi a rivolgermi la parola per primo.
«Per scusarmi» tossì «ti posso offrire una birra stasera? Dopo cena, dai» aveva un'aria così speranzosa che non potei declinare l'invito. Lanciai un'ulteriore occhiata fuori dalla finestra. Pioveva ancora, pioveva a dirotto.
«Ci vediamo alle nove alla fermata davanti alla mia scuola» aggiunse, infine, prima che riattaccassi. Io non lo avrei mai cercato, dopo ciò che aveva avuto il coraggio di dirmi.
E che coraggio.
Qualcosa si era spezzato, in fondo. Quella complicità che era nata, era parsa svanire nel nulla. Ma la cosa che più mi aveva impressionata, era stata la mia totale mancanza di interesse verso quell'ultimo litigio.
Non avevo più pensato a lui, semplicemente.
Mi chiesi come avrei fatto ad uscire, con quella pioggia.
Qualcosa simile all'affetto aveva cominciato a formarsi, nei suoi confronti. Era nato, sbocciato, ma qualcosa aveva interrotto la sua crescita.
Giocherellai per qualche secondo con il tappo di una penna, distrattamente.
"«Cosa ti rende felice?» mi aveva chiesto, di punto in bianco. Lo squadrai dalla testa ai piedi, con aria interrogativa.
«Hai capito benissimo cosa ti ho detto» disse poi mio nonno, con il suo solito sorriso beffardo e affettuoso al contempo.
«Non» tossii «non lo so, cosa mi rende felice». In realtà lo sapevo eccome, cosa mi rendeva felice. Mi rendeva felice essere ascoltata, mi rendeva felice bermi una tazzina di caffè guardando fuori dalla finestra, mi rendeva felice disegnare in classe mentre nessuno se ne accorgeva, mi rendeva felice suonare, mi rendeva felice far sorridere le persone, anche se era una cosa piuttosto rara.
«Ci deve essere, qualcosa che ti fa sentire felice» annuì «per forza».
Sorrisi anch'io, appena, poi abbassai lo sguardo.
Spesso la felicità era difficile da raggiungere, anzi, lo era sempre, in ogni momento. «Felice...» gli feci eco.
«Forse non sei felice perché pretendi troppo per esserlo» aveva pronunciato così tante volte la parola "felice", che ormai sembrava non avere più un senso.
«Non è così» scattai.
«E allora» non smise di sorridere «cosa ti rende felice?»."Non gli avevo ancora risposto, non l'avevo detto a nessuno, in realtà. Nemmeno a Francesco, che, per quanto mi ricordassi, era l'unico ragazzo ad essersi minimamente interessato a me.
Ormai, dopo quella discussione che era avvenuta circa tre anni prima, avevo cominciato a pormi quella domanda molto spesso.
Da sola.
"Cosa ti rende felice?" Ogni volta la lista si aggiornava. Delle cose si eliminavano, delle cose si aggiungevano, altre rimanevano tali a prima.
Alla fine mi sforzavo, per essere felice. E non era il massimo, sforzarsi per star bene. Sarebbe dovuta essere una cosa naturale, non mi sarei dovuta impegnare, in realtà.
Quindi, decisi che sarei stata felice solo quando sarebbe stato un sentimento spontaneo. Ogni tanto lo era. Ero stata felice quel pomeriggio, mentre suonavo, essendo sola a casa.
Mi stupivo, quando quella piacevole sensazione di serenità mi avvolgeva. Era dolce, ma non infinita. Niente, era infinito.
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Glitch - problema tecnico
General Fiction«Spesso cercare di dare una spiegazione teorica a certe sensazioni rende queste sensazioni meno piacevoli. Le cose che non si esprimono a parole, non possono essere descritte a parole.»