18] Wait

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Mi convincevo spesso di essere una deficiente, ma quella volta avevo superato me stessa.

Ogni volta che ero andata a casa di Edoardo eravamo d'accordo, oppure era con me durante il tragitto. Succedeva spesso, sì, ma lui lo sapeva.

Mi diceva quando avrei evitato di trovare il fratello, oppure la ragazza del fratello. Grazie a lui non mi trovavo mai in situazioni strane o imbarazzanti, quindi non mi facevo troppi problemi.

Ma quella volta dovevo andarci, per forza, dovevo, me lo sentivo. Ecco, cosa stavo a ripetere mille volte, per giustificare quella pazzia. "Me lo sento". Mentre camminavo, scrutando ogni metro quadrato di strada deserta. Mentre guardavo oltre le finestre delle case con la luce ancora accesa. Mentre alzavo gli occhi al cielo per verificare che la luna ci fosse ancora, che almeno lei non mi avesse abbandonata.

Perché era così che mi sentivo, io, abbandonata. Dai miei genitori, dai miei pochi amici, persino da Ed. Sapevo a malapena da dove cominciare per riguadagnarmi quello che avevo praticamente perso.

Infatti sarei ripartita da lui, da Edoardo, appunto perché era quello più a rischio, senza di me. Mi faceva male ammetterlo, ma era così.

Arrivai nella via in cui si trovava l'appartamento di Edoardo. Tutto poco illuminato. L'unica luce arrivava dal lampione della strada più vicina, quindi era difficile distinguere le figure.

Il piccolo cancello del giardino, che scavalcai. Dopodiché arrivai al portone dell'edificio. Le luci all'interno erano spente, e di fronte a me avevo i campanelli dei vari inquilini.

Feci scorrere il dito su tutti i tasti, quindi premetti su quello con scritto "Valenti". Mi aveva detto solo una volta il suo cognome, e dopo molta insistenza.

Il mio cuore accelerò, per poi fare un salto quando al citofono rispose una voce che non era quella di Ed.

«Chi è?» non sembrava che si fosse svegliato bruscamente, affatto. Aveva un tono neutrale, non pareva neanche irritato «chi è?» ripeté.

Presi un grande respiro «sono Gemma».

«Gemma chi?»

«Gemma» ripetei.

Sentii un rumore sordo che indicava che Mirko aveva abbassato il citofono. Fantastico, non c'ero riuscita, avevo fallito di nuovo.

Dopodiché le luci delle scale si accesero, ed il portone fece uno scatto.

Mi aveva aperto.

Aprii lentamente la porta, poi sentii dei passi sulle scale. Ad un tratto comparve Mirko da dietro un muro.

Era completamente diverso da suo fratello. Aveva gli occhi più schiacciati e scuri, i capelli di un biondo sporco, cortissimi. Era più alto, il volto ricco di rughe d'espressione. Pareva più robusto di Edoardo, molto più robusto. Indossava una felpa grigia e una maglia dello stesso colore, un paio di jeans e dei sandali.

«Scusami, io non ti conosco» inclinò la testa da un lato.

«Sei solo a casa?» gli chiesi. A quel punto fu lui a sobbalzare, ed il suo sguardo si fece quasi triste. Subito annuì.

«Quindi Edoardo non c'è?»

«Sono giorni che non lo vedo, ma credo sia normale» da come barcollava sembrava quasi ubriaco, ma era evidente che non lo fosse.

Ed mi aveva detto che suo fratello non si faceva mai vivo, che non andavano molto d'accordo, che erano completamente opposti. Finalmente potevo verificarlo.

«Un attimo, il tuo nome non mi è nuovo» mi resi conto che mi stava squadrando «eppure non ti ho mai vista. Togliti gli occhiali».

Obbedii, e alzai le sopracciglia per non far notare che non riuscivo più a vedere assolutamente niente. Era una perdita di tempo, mi stava innervosendo e io volevo Ed.

«No, niente. Sali» era un ordine, più che un invito «credo che tu sia quella Gemma della busta».

Mentre la mia mano incontrava la ringhiera delle scale, alzai lo sguardo e domandai «busta? Che busta?»

«Aspetta, tu entra in casa, ti spiego io» rispose senza guardarmi.

Potevo confermarlo: qualcosa non andava.

Glitch - problema tecnicoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora