13] Nothing changed

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Andare a scuola era diventata una faticaccia. Era ancora gennaio, eppure ero così affaticata che sembrava fosse già passato un intero anno scolastico.

«È l'ultimo» mi ripetevo mentalmente «l'ultimo».

Ma poi mi veniva in mente l'università.

E poi il lavoro.

E non sapevo quale lavoro.

Tutti i miei coetanei avevano le idee chiare, ed io mi chiedevo come facessero. Mi sentivo così confusa, a volte. Poi mi ripetevo che non ne valeva la pena, che tutto sarebbe andato per il meglio.

Le solite stupidaggini che si dicono ai bambini, insomma. Solo che io cercavo di autoconvicermi.

Il bello era che fino a quel momento tutto era in salita. Speravo, allora, che la discesa arrivasse al più presto. Non mi ero mai arresa, eppure ero al limite.

Da quando conoscevo Edoardo, avevo smesso di spiare le lezioni di musica davanti all'artistico. Ormai la mia era una sfida continua contro me stessa, e la stavo vincendo grazie a Ed.

In ogni caso non me la sentivo di perdere del tutto quell'abitudine. Avevo nostalgia degli insegnanti di quella scuola e dei loro allievi.

Stavo camminando per la stradina che portava in periferia. Finalmente tornavo in quel luogo, dopo molto tempo, e niente era cambiato.

Non che mi aspettassi cambiamenti, in realtà. Il liceo artistico era come sempre: cancelli aperti, gruppi di studenti riuniti attorno ai motorini a parlare.

Presi un grande respiro e mi sedetti sui gradini, come avevo sempre fatto.

Da quando Francesco mi si era dichiarato, non l'avevo più visto. Quel luogo mi ricordava così tanto quel ragazzo. Mi era sempre stato piuttosto simpatico.

Era semplice, dolce e tranquillo.

Forse non mi ero innamorata di lui proprio per quel motivo. Magari anch'io avevo bisogno di qualcuno che stravolgesse la mia normalità.

Essendo completamente immersa nei miei pensieri, non mi ero accorta che la scuola non stava aprendo. Quando però lo notai, un'espressione abbastanza perplessa si fece strada sul mio volto. Mi alzai lentamente e controvoglia, dato che avevo pianificato di camminare verso quel portone di legno solo dopo che fosse stato aperto.

Più avanzavo, più mi rendevo conto di quanto sembrasse polverosa la porta. Più del solito.

Decisi di girare intorno alla scuola, cercare indizi esattamente nel punto in cui mi posizionavo per spiare le lezioni.

Non fu un foglio con degli orari, quello che trovai. Non fu un allievo della scuola, né tanto mento l'insegnante.

Era Francesco, seduto, appoggiato alla parete sporca e rovinata.

«Ah, ciao» disse, tentando di essere inespressivo, quando mi vide. Eppure avevo colto uno strano bagliore nei suoi occhi, un bagliore che non gli avevo mai visto prima, e non mi trasmetteva assolutamente niente di positivo.

«Ciao» risposi, imitando il suo tono di voce senza accorgermene.

«Vieni» mi disse, indicando il pezzo di terra accanto a sé «siediti».

Io lo guardai per qualche secondo, poi accennò di nuovo al terreno, perciò mi sedetti.

«Brutto affare, hanno chiuso»

«Che cosa?» chiesi io, incuriosita.

«La scuola di musica. Sai, stavo imparando il pianoforte qui» indico il muro dietro di sé con il pollice.

Glitch - problema tecnicoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora