Il freddo velo che si era steso a separare me e i miei genitori mi complicava tremendamente la vita. A casa ci guardavamo a malapena negli occhi, io passavo ancor più tempo in camera mia davanti alla finestra e loro uscivano sempre più spesso, senza dirmi il motivo.
Capitava che prendessero anche il mazzo di chiavi che mi apparteneva, perciò dovevo rimanere a casa.
Questo distacco che si era creato mi faceva riflettere molto. Avevo paura di essere io, quella difettosa. Credevo di essere in torto.
Era passato circa un mese da quella discussione in cucina. Ormai era metà febbraio, e quel giorno fuori pioveva a dirotto.
Mi ero resa conto di non aver visto Ed per molto tempo, in più anche Nives si comportava in modo strano con me. Come se mi stesse nascondendo qualcosa. Scossi la testa, fissando il pavimento. Non mi nascondeva niente e lo sapevo bene, era una mia impressione.
Nives era sempre stata una persona lunatica, come me, d'altronde. Sebbene avessimo questa caratteristica in comune, non ci assomigliavamo affatto. Non mi comportavo come una vera amica, a volte. Le tenevo nascoste molte cose, non uscivo spesso con lei, non andavo spesso a casa sua né viceversa.
L'amicizia, ecco.
Quando ero piccola, per me, l'amicizia aveva un valore inestimabile. Ero convinta che non potesse esserci l'amore, dove non era stata l'amicizia.
Eppure a volte mi sembrava di non comprendere cosa fosse. In molti me l'avevano fatto notare, mi dicevano che comportandomi così avrei perso più persone di quante credessi di avere vicino. Io rispondevo sempre allo stesso modo, dicendo che preferivo avere pochi amici che mi apprezzassero per quella che ero, piuttosto che molti amici falsi che mi rivolgevano la parola solamente perché seguivo dei determinati canoni.
Mi faceva schifo, ragionare così.
Come una maschera in mezzo a tante altre.
E mi faceva ancor più schifo constatare che quasi tutti agivano a quella maniera.
E allora no, dicevo, non ero io quella che non capiva cos'era l'amicizia. Erano gli altri.
In ogni caso, ero sicura che quella fra me e Nives fosse amicizia.
Ma con Ed non era mai stata amicizia, e ciò mi aveva destabilizzata e confusa. Io, che non mi ero mai innamorata di nessuno, avevo perso la testa per un perfetto sconosciuto. Che poi, alla fine, non mi sembrava così sconosciuto. Pareva quasi che ci conoscessimo da una vita, e ovviamente era quello che gli permetteva di capirmi.
E sentirlo così raramente non mi faceva affatto bene. Tossii.
Non era la distanza, il nostro problema. Non lo era mai stato. Non eravamo distanti, solo qualche fermata dell'autobus e ci saremmo visti.
Alzai lo sguardo. Non era la distanza il problema: il problema non c'era.
Erano le due di notte, quindi ovviamente era sveglio. Già me lo immaginavo, lui, che camminava per la strada, oppure in un locale, o magari sulla spiaggia a fumare.
Presi il telefono e composi il suo numero. Pur avendolo salvato, me lo ricordavo a memoria.
Iniziò a squillare. Due, tre, cinque, otto volte. Nessuna risposta. Allora riprovai.
«Forza» dissi a denti stretti «rispondi, dai». Ricomposi il numero altre volte, avevo perso il conto.
Da quanto non lo sentivo parlare? Due settimane, tre. Mi serviva la sua voce.
Ero sfinita di tutto ciò che mi stava accadendo intorno. Era come se stessi aspettando una nuova fase della mia vita per ricominciare tutto.
Chissà, se questa nuova fase sarebbe stata con lui.
Non riuscivo a immaginarci al di fuori di quella città. Non riuscivo a vederci con un figlio, una casa tutta nostra.
Riuscivo solo a sentire l'odore di fumo, il rumore del mare, a vedere il disordine della sua camera.
«Ma allora...» ero quasi isterica. Perché non rispondeva?
Ero disposta a stare per sempre con lui. Fino alla fine.
Sempre così.
Senza cambiare niente, così, nella nostra dolce follia.
Le mani mi sudavano, quel tremendo presentimento era tornato.
«Ma che hai?!» quasi gridai, da sola, chiusa nella mia stanza «che problemi hai?!» forse Edoardo era arrabbiato con me per qualche motivo.
Poteva essere così. Dopotutto non ero una persona perfetta, ma chi lo era? E lui lo sapeva benissimo. Anzi, era quello il motivo per cui ci eravamo legati così tanto.
Mi abbandonai sulla sedia. Non potevo uscire a cercarlo di notte, alle due, di giovedì. Il giorno dopo sarei dovuta andare a scuola. Eppure sapevo, sapevo che c'era qualcosa che non stava andando per il verso giusto. C'era un'anormalità quasi inquietante in quella situazione, e avevo bisogno di capirne il motivo.
Dovevo calmarmi, ne avevo bisogno, ma avevo bisogno anche di lui.
Mi sentivo un'idiota. Pur di incontrarlo sarei stata capace di scappare via, cambiare nome, città, continente, vita. Tutto. Pur di stare con lui.
Magari si era innamorato di un'altra. Scossi la testa, ma ero consapevole che ormai quel pensiero si era insidiato fra gli altri, e mi avrebbe torturata allo stesso modo.
Le ultime volte che ci eravamo visti, si comportava in modo davvero strano. Teneva lo sguardo basso, non mi sorrideva, e anche al telefono dei lunghi silenzi ricchi di tensione erano presenti.
Mi presi la testa fra le mani. Dovevo parlarne con qualcuno, ma con chi, se non con lui? Presi un respiro, e mi dissi che ragionare mi avrebbe aiutata.
Così iniziai a farmi qualche domanda.
Perché, innanzitutto, mi era venuto quell'attacco di panico improvviso? Perché mi sembrava di non potermi fidare di Edoardo? Perché avevo paura che qualcosa accadesse? Perché proprio in quel momento? Perché ero così? Perché ero sempre io a rovinare tutto, alla fine? Perché non mantenevo le promesse che mi facevo da sola?
Mi resi conto che ponendomi tutte queste domande, ad occhi chiusi, il mio respiro era tornato regolare. Ma erano troppe comunque, e volevo trovare una risposta.
Alzai lo sguardo, avevo voglia di piangere, ma non ne avevo la forza. Non volevo iniziare, perché non avrei più smesso.
Tutto era così pesante. Volevo un po' di serenità, non chiedevo altro. Sembrava un film. Ogni cosa avveniva e si incastrava alle altre in maniera quasi perfetta. Sì, perfetta per far del male a me, ma in ogni caso perfetta.
Come se servisse qualcosa a staccare la spina che collegava me con il mondo.
Mi alzai e distesi le braccia, urtando nel buio qualche mobile.
Immaginai di ricevere un messaggio da Ed, in quel momento, magari con un semplice "tutto ok". Mi si sarebbe ridimensionato il mondo, a quel punto, e lo sapevo bene.
I miei genitori dormivano, ma io no, ovviamente, e di sicuro neanche Edoardo. Era presto, per lui, era sempre presto.
Mentre aprivo la porta della mia camera feci attenzione a non fare troppo rumore. Mio padre aveva il sonno leggero, al minimo cigolio avrebbe spalancato gli occhi e si sarebbe alzato per controllare.
Fortunatamente trovai le mie chiavi già nella tasca del giacchetto, accanto ai biglietti dell'autobus stropicciati.
Chiusi gli occhi per un secondo prima di varcare la soglia: sapevo che avrei passato tutta la notte in giro, ma dovevo andare, me lo sentivo.
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Glitch - problema tecnico
General Fiction«Spesso cercare di dare una spiegazione teorica a certe sensazioni rende queste sensazioni meno piacevoli. Le cose che non si esprimono a parole, non possono essere descritte a parole.»