15] I can't be you

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Come io stessa avevo deciso, il giorno seguente mi ritrovai seduta al banco, il solito, quello vicino la finestra. Sentivo parlare i professori, eppure non riuscivo ad ascoltarli. Tutto ciò che udivo era un brusio confuso, le parole entravano e uscivano dalla mia mente, che a sua volta puntava altrove.

Fui fortunata a scampare ad ogni interrogazione, persino a quella di greco. Non avevo scambiato una parola con nessuno, quella mattina.

Neanche con Nives, proprio perché non si era presentata in classe.

Era strano, quel gennaio e quel sole che non gli apparteneva affatto. Dopo il freddo del giorno prima, un calore strano aveva assalito la città. O forse ero l'unica a sentirlo.

La campanella suonò e quasi non mi parve vero. Mi sembrava che fossero passati dieci minuti, dall'inizio della giornata. Non mi era mai successo, di solito il tempo non vola, non a me.

Lo stomaco mi si contorceva, eppure non mi sembrava fame, era qualcosa di diverso.

Mi appoggiai ad un lampione situato vicino alla fermata dell'autobus, sarei tornata a casa per pranzo.

Quasi riuscivo a percepirne l'odore. L'ansia, la mia cara ansia che stava tornando a farsi sentire. Volteggiava attorno a me, mi osservava, mi derideva, mi sfiorava, eppure non mi controllava, non ancora. Voleva farmi capire cosa mi aspettava.

E avevo uno strano presentimento, come se qualcosa stesse per accadere. Era abbastanza raro che io avessi delle sensazioni riguardo al futuro, perciò attribuii questo pensiero insolito alla mia paura.

Che poi, alla fine, era come aver paura di me stessa.

Sì, perché ero io, che lasciavo l'ansia libera. Ero io, che le avevo dato forma, che l'avevo creata. Ormai aveva vita propria e non potevo più farci niente. Invece che soffocarla sul nascere l'avevo coltivata, come una bambina curiosa, perciò era cresciuta.

Per quanto avessi imparato a farci i conti, avevo capito che non se ne sarebbe mai andata. Eppure, a volte, quasi sembrava...

Arrivai a casa. Tutto mi sembrava distante, come se guardassi il mondo attraverso gli occhi di qualcun altro. Niente mi toccava minimamente, anche se quel presentimento rimaneva.

"Calmati" mi dissi "se succederà qualcosa, sarà perché l'hai fatto succedere tu".

Mi sembrava di essere sotto l'effetto di qualche sostanza stupefacente. Mi sentivo leggera, lontana da tutto e da tutti.

Questa sensazione svanì non appena mia madre mi rivolse la parola.

«Ciao, Gemma» sentii dire dalla cucina. Il suo tono era serio, ma non arrabbiato «come ti senti oggi?»

«Meglio» mormorai «cioè, bene». Mio padre era seduto a tavola con la testa china sul cellulare. Sembrava stesse leggendo un articolo su un sito. Anche lui aveva un'aria cupa, come quella di mia madre.

«Siediti, dai» mi invitò ad accomodarmi, anche se più che un invito si trattava di un ordine. Obbedii, sempre più incuriosita.

«Devi sapere che stamani» sorrise di sbieco «mentre eri a scuola, ci siamo ritrovati questo foglio attaccato alla porta» posò un foglio sporco e stropicciato, con un pezzo di scotch attaccato a due estremi.

Sopra ad esso, a caratteri larghi e ben leggibili, c'era scritto "fate più attenzione alle persone che vostra figlia frequenta, un saluto".

Sentii la rabbia ribollire. Sicuramente in quel momento la mia ansia stava ridendo di me, si divertiva a vedermi soffrire.

«Dobbiamo crederci?» chiese mia madre, sfiorando il foglio con un dito «hai qualcosa da dirci, per caso?».

Deglutii. Ero tentata di raccontargli tutto, ma poi scossi la testa. Non avevo undici anni, ero maggiorenne, stavo per finire la scuola, sapevo cavarmela da sola, non dipendevo più da loro. Non avevano il diritto di sapere ogni cosa che mi riguardasse. Capivo le loro preoccupazioni, erano i miei genitori e tenevano molto a me, esattamente come avevano sempre dimostrato. Eppure mi sentivo una bambina, in loro presenza, come se dovessero ancora tenermi per mano per attraversare la strada.

«Non vi riguarda» incrociai le braccia «fino a prova contraria, posso frequentare chi voglio, e voi non potete farci nulla» ero consapevole di star aumentando le loro paure, dicendo così. In ogni caso, in quel momento mi sembrava l'unica maniera per uscire da quella situazione così strana.

Mia madre rabbrividì, mio padre alzò la testa verso di me.

«Gemma» disse «se sta succedendo qualcosa...»

«Non sta succedendo niente» lo interruppi «e comunque non dovete preoccuparvi per me, capitelo, ho diciannove anni, non sette»

«Siamo comunque i tuoi genitori»

«Sì, ma posso decidere le mie compagnie, grazie tante» mi resi conto solo allora che il mio tono era diventato quasi minaccioso. Mi stavo spaventando da sola.

Presi fiato, tutto ciò mi schiacciava. Non potevo sopportare nuovamente una pressione del genere.

«Scusatemi, ma adesso ho proprio bisogno di andare» mi alzai di scatto dalla sedia, senza aver toccato cibo, e uscii di casa senza prendere niente con me.

Iniziai a camminare in mezzo alla strada, come sempre. Presi una via secondaria di cui non avevo mai considerato l'esistenza, ed iniziai a passare davanti a case, giardini, palazzi che non avevo mai visto, stranamente.

Non capivo.

Mi era capitato molte volte di nascondere qualcosa ai miei genitori. Il loro carattere paranoico e iperprotettivo non mi lasciava spesso alternative. Ogni tanto dovevo mentir loro pur di non farli star male.

Lo facevo per il loro bene, esattamente come loro credevano di fare con me.

Sbuffai. Era inutile cercare di proteggere le persone, quando si finiva per fallire. Nessuno ci avrebbe guadagnato niente, andando avanti a questa maniera.

Camminavo a testa bassa, senza considerare quelle poche persone che mi passavano accanto. Non volevo tornare a casa, volevo starmene per i fatti miei. Era una necessità.

L'unico di cui avevo bisogno in quel momento ovviamente non c'era. Non poteva esserci. Mi mancava.

Credevo di non riuscire a respirare, senza di lui. Sembrava esser passata un'eternità dal nostro ultimo incontro, ed avevo voglia di sentire la sua voce, di guardarlo negli occhi, di abbracciarlo.

Così, sbuffai nuovamente.

I miei genitori non potevano impedirmi di vederlo, senza essere a conoscenza della sua esistenza.

Avremmo continuato ad incontrarci di nascosto, come avevamo sempre fatto.

E non sarebbe cambiato niente.

Eppure perché, quella sensazione, quel terribile presentimento, rimaneva?

Glitch - problema tecnicoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora