10] I can't live of memories

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Settembre, come sempre, era il mese più faticoso per me. Il rientro a scuola mi stordiva ogni anno, non ero ancora riuscita ad abituarmi al cambiamento. In più, molte facce che credevo sparissero dalla mia vista si erano ripresentate nei corridoi, e ciò mi faceva preoccupare. Erano tantissimi, i ragazzi bocciati quell'anno.

Sarebbe toccato anche a me?

Scacciai subito quel pensiero, e ricominciai a pensare ad altro. Avevo le cuffie nelle orecchie e stavo ascoltando un gruppo poco famoso che avevo scoperto puramente per caso.

Ero strana, io, con la musica. Andavo a cercare le cose più impensabili, ovunque, sempre.

L'autobus era stracolmo di ragazzi più piccoli di me. Erano solo le quattro del pomeriggio, eppure avevano un'aria così affaticata.

"Aspettate" pensai, ridacchiando "aspettate di arrivare al quinto anno".

Scesi alla fermata dopo la loro. Dovevo cambiare autobus, e non mi andava per niente, ma potevo fare qualche sacrificio per Ed, che finalmente voleva vedermi.

Mi aveva dato appuntamento in un luogo tranquillo vicino al mare: un bar a cui nessuno andava mai, e di cui tutti ignoravano l'esistenza. Perfetto, insomma.

Appena salii sul secondo autobus, nel timbrare il biglietto, sentii una mano posarsi sulla mia spalla.

«Ehi, Gemma» mi voltai immediatamente, riconoscendo la voce «ci siamo trovati prima del previsto, allora».

Sorrisi a Ed, e mi resi conto di stare arrossendo «sì»

«Oggi comunichi in monosillabi?» ridacchiò, grattandosi una tempia. Riuscivo a leggergli in faccia l'imbarazzo. Era passato quasi un mese dal nostro ultimo incontro, e lui non era cambiato affatto. Non che mi aspettassi un cambiamento.

Per un attimo mi parve che indossasse gli stessi abiti dell'ultima volta che l'avevo visto.

Rimanemmo in piedi, anche se i posti a sedere erano numerosi, e quasi tutti liberi.

Mi faceva quasi ridere il modo in cui non riuscissimo a guardarci negli occhi per più di qualche secondo. Era una timidezza che non lo caratterizzava affatto, mentre da parte mia c'era da aspettarsi un comportamento del genere.

«Scusami, comunque» mormorò «è un bel po' che non mi faccio sentire»

«Anch'io, se è per questo» gli sorrisi «non preoccuparti».

Annuì e dopodiché scendemmo dall'autobus.

C'era molto sole, eppure qualche nuvola sovrastava l'orizzonte. Non sentivo neanche un filo di vento, mentre camminavamo verso il bar, in più il caldo era asfissiante. Eppure, lui indossava sempre la sua solita felpa bordeaux ed i suoi jeans vecchi e rovinati.

Non smetteva mai di stupirmi, nella sua semplicità. In ogni caso, credevo che fosse una cosa positiva.

Ogni suo passo corrispondeva a due dei miei, ma cercava di camminarmi accanto senza superarmi. Ogni tanto mi lanciava qualche occhiata imbarazzata.

«Siediti lì, che arrivo» mi disse, indicandomi un tavolino all'aperto, prima di entrare nel piccolo bar. Era una situazione piuttosto strana, perché eravamo abituati a vederci solo di notte, in spiaggia, ma in quel momento c'era un sole cocente.

Ridacchiai quando lo vidi tornare con una bottiglietta di tè freddo e due bicchieri di plastica «come due dodicenni» mormorò, dopodiché si sedette di fronte a me, porgendomi un bicchiere di tè.

«Sì, come due dodicenni» presi un sorso e una sensazione piacevole mi percorse tutto il corpo. Mi andava proprio, un bel tè fresco.

«Allora, la scuola?» mi domandò.

«Come sempre, diciamo»

«E che vuol dire, "come sempre"?»

«Vuol dire» picchiettai il tavolino di metallo con un dito «che non è cambiato niente». Vedendolo piuttosto perplesso mi affrettai ad aggiungere «a scuola, intendo».

Annuì e si abbandonò sulla sedia, fatta dello stesso materiale del tavolo. Gli ombrelloni disposti fra i tavolini non ci riparavano del tutto dal sole, mi sembrava di essere tornata ai pomeriggi di luglio.

Averlo di fronte, con i suoi occhi del solito azzurro spento, mi catapultava indietro nel tempo. Di poco, sì, ma pur sempre indietro.

E mi faceva bene, mi faceva davvero bene.

Ripensai alla prima impressione che mi aveva dato. Mi era sembrato una persona inaffidabile, un drogato, un ubriaco, un pazzo.

Era difficile non giudicare un libro dalla copertina, in effetti. Edoardo mi aveva fatto capire tantissime cose, in così poco tempo. Sorrisi senza farmi notare, o almeno, così credetti.

«Come mai sorridi?» mi prese la mano che stavo usando per coprirmi la bocca, e la adagiò sul tavolo, con sopra la sua. Non era un tono incuriosito, era un tono dolce, affettuoso.

«No, niente» risposi, senza sapere il perché.

«Ma era un sorriso strano» passò un dito sul dorso della mia mano e tentò di sorridere anche lui.

«Sono felice di vederti» dissi soltanto. Gli lanciai un'occhiata prima di distogliere lo sguardo. Lo ero davvero, ero felice.

In quell'istante il suo sorriso s'ingrandì appena, mostrando la fila di denti superiore.

«E, insomma» mormorò «i tuoi che dicono, di me?».

Tornai allora a fissarlo ed inclinai appena il capo. I miei genitori non avevano la più pallida idea di chi fosse e, se l'avessero avuta, mi avrebbero certamente proibito di vederlo. L'avrebbero definito un tipo strano e inaffidabile, semplicemente intravedendolo.

«I miei non sanno niente di te» alzai le spalle.

«Oh, credevo di essere rimasto indietro» alzò un sopracciglio «invece non è cambiata, la situazione» riprese ad accarezzarmi la mano.

Io scossi appena la testa.

«Non preoccuparti, comunque, non è importante» disse poi, tranquillizzandomi «i miei sanno a malapena che sono vivo».

Sobbalzai, ma lui non lo notò. Mi ero quasi dimenticata dell'esistenza dei suoi genitori, un po' come se lui fosse nato così, dal nulla più assoluto. Caduto assieme alla pioggia, un giorno.

«Come si chiama tuo fratello?» chiesi, allora. Non me l'aveva mai detto.

«Mirko» rispose lui, abbassando lo sguardo, per poi alzarlo nuovamente «non lo sapevi?»

«Ci sono tante cose che non so di te, Ed» roteai gli occhi «non so quand'è il tuo compleanno, non so qual è il tuo colore preferito» dissi «non so se hai sempre vissuto in quella casa o se ti sei trasferito, non so da quanto tempo fumi, non so se hai altri amici, non so quasi niente di te. Eppure, eccomi qui»

Alzò un angolo della bocca «sì, beh. Il mio compleanno è il due di giugno. Il blu, è il blu il mio colore preferito»

«Anche il mio» sorrisi.

«Ottimo. Poi, sì, ho sempre vissuto in quella casa. Comunque, fra virgolette. È il luogo dove dormo, e neanche sempre. Fumo da... Tanto. Avevo quattordici anni quando ho provato» alzò gli occhi, come se lo affaticasse il fatto di ricordare.

«Capisco» dissi, senza neanche accorgermene.

«Poi no. Cioè, sì. Prima avevo altri amici, ora non più» sospirò «ma va meglio così, te lo assicuro. Sto molto meglio così, da solo con te»

«Ed» sussurrai. Fu lui ad interrompermi. «Sei l'unica persona a cui io tenga».

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