7] A glass jail

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Tutti quegli incontri avevano stabilito fra noi un legame basato sulla fiducia, sulle parole, ma soprattutto sull'ascoltare ciò che l'altro aveva da dire, cosa che a entrambi riusciva tremendamente bene.

Decisi così, una sera, che volevo leggere ciò che scriveva.

Stavamo camminando sulla spiaggia, in silenzio, lui che tossicchiava ogni tanto, il mare che s'increspava appena sul bagnasciuga.

«Mi prendi in giro, Glitch?» ridacchiò «vuoi veramente leggere qualcosa di mio?»

«Sì, giuro» ero cambiata così tanto, insieme a lui, insieme alle sue sigarette e al suo tono perennemente ironico.

«Ma in questo modo devi venire a casa mia» barcollò appena.

«Scusa, non vorrei svegliare nessuno a quest'ora» mormorai. Erano le tre del mattino, come al solito. Era una notte piuttosto nuvolosa, della luna non c'era traccia, perciò illuminavamo la spiaggia con lo schermo del cellulare. Ogni tanto semplicemente non la illuminavamo.

«Ma chi vuoi svegliare?» soffocò una risata «mio fratello come minimo è dalla sua ragazza e se non lo è, si trova insieme a qualche suo amico a fare casino. I miei sono dall'altra parte d'Italia e casa è quasi sempre deserta, te lo devo dire un'altra volta?»

Annuii. Mi aveva detto molte volte che non si trovava spesso in casa, solo quando aveva voglia di dormire o durante i pasti, che puntualmente preparava e consumava da solo.

Io sapevo cucinare a malapena, nessuno mi aveva mai insegnato, e come autodidatta facevo pietà anche a preparare un uovo sodo.

Ci avviammo verso la sua casa, che non avevo assolutamente mai visto.

Pensai che in qualche modo erano cambiate moltissime cose, dal nostro primo incontro. Mi era sembrato singolare fin da subito.

Mi era sembrato unico, a dire il vero. Sì, "unico" era la parola giusta. Era unico assolutamente in tutto. Ogni cosa, se paragonata a lui, era terribilmente noiosa.

Aveva una mente così criptata, che all'inizio pensavo fosse più confuso di me.

Conoscendolo meglio avevo capito che no, non era più confuso di me, affatto. Era solo molto complicato, ma alla fine tutto quello che diceva aveva un senso, anche ciò che apparentemente poteva esserne privo.

Camminavo dietro di lui, che avanzava ad ampie falcate sul marciapiede mezzo rotto, sotto la luce dei lampioni, alcuni non funzionanti.

Un luogo odioso, la mia città. Odiosa, sì, ma la amavo comunque.

Come facevo ad amare un luogo che odiavo?

Mi chiedevo spesso molte cose su di me, ma nemmeno io stessa sapevo rispondere. Ero piuttosto riuscita a dare sfogo a tutto ciò che mi tenevo dentro con Ed, o meglio, Ah.

Alla fine, mi sentivo così vicina a lui, psicologicamente. Non lo avevo praticamente mai sfiorato, dopo quella volta che avevo percepito il freddo sulla sua pelle.

Sarei stata curiosa di sapere se era ancora gelido come la prima volta, o se ero riuscita a riscaldare il suo cuore, in qualche modo.

I suoi capelli color dell'oro erano spettinati come sempre, la testa china a fissare i piedi che procedevano l'uno dinanzi all'altro, toccando terra seguendo sempre lo stesso ritmo.

Lui era come musica, era come una melodia strana e sconosciuta, di cui ogni volta conoscevo una nuova parte.

Come quando ascolti una canzone con le cuffie, ed isolandoti dal resto del mondo ti accorgi della presenza di alcuni strumenti che in mezzo alla confusione non riuscivi a sentire.

Glitch - problema tecnicoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora