Capitolo 16: Cambiare, insieme

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Clara

Erano le quasi le tre e mezza quando fui svegliata dal clacson di un auto. Sulle prime decisi di riappoggiare la testa sul cuscino, e ignorare ogni rumore molesto, ma ecco che il campanello suonò forte. Sapevo chi c'era dietro la porta, per questo non andai ad aprire e restai sdraiata nel letto per tutto il tempo, finché non tornò il silenzio.

Afferrai una vestaglia e me la infilai. Mi avvicinai alla finestra e da dietro la tenda vidi i miei amici discutere tra loro come bambini, e una lacrima mi solcò la guancia.

Avrei riso se il senso di vuoto, di amarezza, non mi avesse stretto il petto in una morsa.
Avrei spiegato tutto. Un giorno, seppure vergognandomene a morte. Quando tutta questa storia sarebbe stata solo un ricordo, forse avrei avuto il coraggio di parlare della mia follia, del desiderio di salvare mia madre, della colpa di aver concepito un figlio che sapevo non avrei mai potuto chiamare in quel modo.

Scostai un po' la tenda.
Mi mancava il respiro, del cuore né sentivo addirittura il rumore nelle tempie. Di nuovo le lacrime si fecero strada, ottuse, ignoranti. Sempre lì a premere dietro i miei occhi e a straripare come se potessero lavare la mia coscienza, annaffiare la mia speranza o cancellare il mio dolore.
Ma niente sarebbe servito a purificarmi dalle mie colpe.

Il campanello non suonò più.
C'era silenzio in casa. Guardai i tre gettare la spugna, pensando avessi anticipato la partenza, e dirigersi sconsolati alla macchina di Adrian.
Mise in moto. Continuai a osservarli, incapace di reagire.

Era giusto così.

L'auto svoltò l'angolo con uno stridio di gomme e un leggero sbandamento. 
Adrian era un pessimo pilota.

Con un sospiro mi allontanai dalla finestra. Non c'era più niente da vedere. Mi tolsi la vestaglia e mi coprii di nuovo con le lenzuola, ma il sonno era passato. Restai a fissare il soffitto.

Maledetti ormoni.

Alle otto dissi arrivederci alla mia amata libertà, e presi il taxi.
Quello mi condusse davanti ai cancelli della villa di Alberti, e quando presi il portafogli per pagargli la corsa, mi rispose che non serviva, ci aveva già pensato quel testone di Max. Le mie parole erano volate al vento inalscoltate.

Aprii la portiera, e il tassista scese pure lui aiutandomi a trasportare l'unico bagaglio che mi ero portata dietro. Avevo faticato non poco a convincerlo che non c'era alcun bisogno del suo carro funebre per trasportare le mie cose. Chissà cosa si immaginava dovessi portarmi.

Il mio bagaglio per questi mesi consisteva in un capiente borsone sportivo. Non mi ero portata dietro mezza casa, ma quel che più mi sarebbe tornato utile.

Avrei trascorso tutte le giornate in casa e poi era solo una prova.
Se avesse continuato ad irritarmi con le sue paranoie avrei rifatto i bagagli e preso la strada di casa.
Ogni cosa che facevo, per lui, poteva divenire potenzialmente pericoloso per il suo bambino.
Mi girava intorno continuamente, come un satellite, mi stava col fiato sul collo, cercando di prevenire ogni mio desiderio, di evitarmi ogni fatica. Secondo lui, una donna incinta non aveva neanche il diritto di alzarsi per andare in bagno, come se anche il semplice camminare arrecasse danni.
Ero soffocata dalle sue attenzioni morbose, mi trattava come se potessi andare in mille pezzi da un momento all'altro, al minimo soffio di vento.

Aveva iniziato immediatamente, appena varcato il portone d'ingresso. Siccome fui nervosa durante il tragitto mi era anche salito il senso di nausea.

Quando mi venne incontro lo spintonai di lato.

"...Bagno..." parlai con le mani sulle labbra, e salii le scale di fretta.

 PATTO DI SANGUE (Completa) #Wattys2018Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora