XLVI

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L'uomo è dove è il suo cuore, non dove è il suo corpo.
(Mahatma Gandhi)


Mi sembrava di essere tornata indietro negli anni, ai giorni dopo la morte di mia mamma.

Mi sentivo completamente svuotata, inesistente. Come se tutto quello per cui valesse la pena sorridere, o semplicemente vivere, mi fosse stato strappato via.

Ma la verità era che ero stata io a buttarlo via e, oltre a piangere, non stavo facendo nulla per rimediare.

Ero vuota, spossata e sfinita.

Quando ero arrivata a casa mi ero buttata a letto, togliendomi i vestiti e indossando dei pantaloni della tuta e la maglietta di Captan America che era di Luca, stringendola come se potessi stringere lui e piangendo fino ad addormentarmi.

Per mia fortuna era domenica e non dovevo andare a scuola, o sarei morta. O non sarei andata a scuola. Non credo che ci sarei riuscita ad affrontare il tutto.

Rivederlo... sarebbe stato come aprire una ferita e versarci succo di limone e sale per poi andare a giocare in mare. O, nel mio caso, affacciarmi dall'ultimo piano di qualche grattacielo.

– Sofi, cosa vuoi da mangiare? – chiese papà, rimanendo saggiamente dietro la porta chiusa.

Mi portai un cuscino al petto, costatando che aveva un lieve retrogusto di menta.

– Niente – urlai, provando a far rimanere la voce salda. L'ultima cosa che volevo in quel momento era che mio padre mi vedesse sul letto ridotta uno straccio.

– Sei sicura? Non hai fatto nemmeno colazione –

– Non ho fame –. Il che era vero. Avevo lo stomaco chiuso e il solo pensiero di mettere qualcosa sotto i denti mi dava la nausea.

Papà non disse nulla per qualche secondo, poi lo sentii sospirare. – Va bene. Io mi faccio una svizzera e dell'insalata. Se poi ti viene fame fammelo sapere –

Nascosi il volto nel cuscino mentre venivo scossa da altri singhiozzi.

Perché diavolo non riuscivo a smetterla? A far smettere a quella sensazione di vuoto di dilatarsi dentro di me.

Avevo anche provato a distrarmi, ma qualsiasi cosa facessi mi riconduceva a Luca, ciò che era successo quella notte, e scoppiavo di nuovo a piangere.

Mi facevo schifo da sola.

Sospirai e mi coprii con le coperte, provando a calmare il battito e tornando a dormire per qualche altra ora.

Magari avrei potuto dormire in eterno, non sarebbe stato male. Fare una vita da eremita.

Forse la teoria di Arianna sul diventare suora non era poi così infondata.

Quando mi risvegliai dal mio sonnellino, erano le quattro del pomeriggio e avevo un mal di testa tremendo.

Gli occhi erano cerchiati di rosso e sembravo reduce da una malattia mortale.

Afferrai i libri con un ringhio di rabbia e provai a concentrarmi, mi obbligai a concentrarmi, su quello che dovevamo suonare.

Era l'ultima settimana di scuola prima delle vacanze di natale e naturalmente avevamo tre verifiche, in solo quattro giorni.

Mi sembrava ovvio, i professori sempre all'ultimo dovevano fissarci le verifiche! Sembra che lo facciano apposta!

Con la musica nelle orecchie a tutto volume e gli occhi incollati sui libri non mi accorsi che la porta della mia stanza si era aperta fino a quando Arianna non mi sventolò una mano davanti al viso.

Come Neve D'EstateDove le storie prendono vita. Scoprilo ora