Capitolo Otto [Parte I]

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Il cappello di carice che Seung Hyun indossava ombreggiava sulla fronte. I capelli raccolti in una lunga treccia battevano contro la schiena e il sudore accarezzava la nuca. Non c'era nemmeno un filo di vento. Il sole, quella mattina, aveva deciso di inaridire le strade; il sole, quella mattina, lo avrebbe accompagnato durante la fuga.

Non aveva chiuso occhio per tutta la notte, nel tentativo di rimuginare su una soluzione, ma non ne aveva trovata una. Se non possedeva il coraggio di uccidere un uomo e nemmeno quello per contestare gli ordini di suo padre, allora avrebbe evitato a tutti costi quel futuro unto di sangue.

La verità, era che non voleva dare ragione agli abitanti del villaggio in cui era nato. Venuto alla luce sotto una cattiva stella, dicevano che un giorno avrebbe portato distruzione nel loro mondo, che si sarebbe trasformato in una calamità. Dunque, uccidere un uomo – che pure fosse stato necessario per il bene di Silla – era fuori discussione.

Seduto sotto ad un albero, cresciuto accanto alle mura Est di Seorabeol, non faceva che grattarsi le ginocchia. Il cotone prudeva sopra i lividi collezionati durante gli allenamenti. Non potendo scrivere una lettera d'addio – erano ancora pochi gli ideogrammi che aveva imparato – aveva solo piegato le vesti di seta davanti alla sua stanza.

Era partito all'alba, lasciando la nuova casa alle spalle, ma non aveva avuto il coraggio di lasciare la città. Una parte di sé aveva sperato che qualcuno sarebbe andato a cercarlo, afferrandolo per l'orecchio, e lo avrebbe riportato indietro. Avrebbe accettato persino le frustate con la pala di legno. Invece, sembrava che la sua scomparsa – a quel tempo ormai conclamata – non avesse lasciato vuoti.

L'amarezza disegnò un sorriso. Non era cresciuto per niente. Era ancora un bambino in cerca di attenzioni. Batté le mani sulle ginocchia e si alzò. Stirò la jeogori sgualcita e si diresse verso le grandi porte rosse dove sostavano due guardie. Carri di mercanti si trascinavano lungo l'ingresso, i cavalli scalpitavano facendo sollevare la polvere. Vi passò in mezzo, senza badare al pericolo di essere calpestato. Di Seorabeol sarebbe rimasto solo un sogno.

«Kim Seung Hyun!»

Una doppia voce, chiaroscura, irruppe nella confusione. Seung Hyun inchiodò i piedi a terra. Si voltò di tre quarti e con la coda dell'occhio riconobbe due sagome fra la folla colorata.

Choi Kang Jo, affannato, curvò la schiena. Il copricapo di seta con la punta a cappuccio era attaccata alla nuca. I capelli lucidi d'olio piombarono sulle spalle, mentre sorseggiava continui bicchieri d'aria. Accanto a lui, colei la cui esistenza tornò alla mente solo allora, sostava Park Min Rin nel suo abito bianco, accecante, che raccoglieva tutti i raggi del sole. Un nastro rosso passava sulla testa, allontanando la frangia dalla fronte.

Non aveva idea del motivo per cui quei due fossero insieme, ma non sapeva nemmeno cosa fare, se voltare le spalle e fingere di non averli sentiti. Non poté decidere, perché Kang Jo coprì la distanza fra loro e lo afferrò per il bavero marrone della jeogori. I suoi occhi lunghi non erano mai stati così grandi e lucidi.

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