Pink

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Le mie orecchie iniziano a percepire il silenzio intorno a me, ma non voglio saperne di aprire gli occhi.

Mi rigiro dall'altra parte e stringo il cuscino, cerco di ripiombare nel sonno ma senza successo. Il sibilo del GlassPad irrompe nel mio torpore infrangendolo come un pannello di vetro. Apro lentamente gli occhi, ci metto un po' a notare che è ancora buio. Mi rigiro su me stessa e guardo fuori dalla finestra. Vedo un treno correre sui binari della parte scoperta della metropolitana, vedo i vagoni accesi sfrecciare in linea retta per poi andare a rintanarsi nel buio della galleria, come un serpente nella sua tana. Il GlassBuilding scintilla all'orizzonte e lo skyline si avvolge delle ultime sfumature di un sole ormai tramontato. E' il crepuscolo; il momento che più preferisco della giornata, quello in cui la vista della metropoli che inizia ad accendersi mi mozza il fiato. Vedo gli alberi del Parco Centrale muoversi ai primi accenni di brezza serale, le puntine luminose dei fari delle automobili diramarsi in tutte le direzioni come se fossero biglie colorate che sfrecciano su un pavimento di marmo. Mi alzo e mi avvicino alla finestra, poso la mano sul vetro e mi perdo nel richiamo pulsante dei grattacieli. Ruoto lo sguardo per abbracciare quanta più possibile di questa magia e inavvertitamente poso gli occhi sul grande orologio in cima allo State High. Segna le 19.35, rimango stranita. Un pensiero mi colpisce il cervello, quasi posso sentirne il rumore, non è "ancora" buio come pensavo, bensì è già buio.

Mi stacco dalla finestra e mi chiedo come posso aver dormito così tanto. Insieme alle mie gambe inizia a muoversi anche il mio stomaco, perché d'un tratto la fame mi assale. Recupero il GlassPad dallo zaino, ancora abbandonato nell'angolo vicino alla porta e mi dirigo in cucina. Accendo le luci regolandole sui toni più bassi e caldi, le atmosfere soffuse le ho sempre preferite e non penso che i miei occhi siano ancora pronti per luci troppo forti. Apro il frigo e sono indecisa se prepararmi la colazione o la cena, il mio stomaco brontola ancora così opto per una pizza surgelata. La scarto e la inforno, regolo il timer su 20 minuti e mi appollaio su uno degli sgabelli accanto al bancone della cucina. Riporto la mia ttenzione sul GlassPad, niente chiamate perse, ma ci sono tre messaggi. Uno è della mamma: "Ciao tesoro, ho inviato la notifica d'assenza all'infermeria, ho avvisato anche papà. Ci sentiamo presto." - direi che non c'è bisogno di risponderle. Il secondo messaggio è di Dylan: "Allora? Come ti senti? Sono preoccupato", apro la finestra di risposta, digito velocemente un "Scusa, mi son svegliata solo adesso. Sto meglio, non preoccuparti. Ci si vede in giro." - mentre premo invio mi rendo conto di non avergli lasciato una possibilità di risposta. Mi sento crudele, dopo tutte le premure di ieri, ma se iniziassi a scrivergli rimeremmo di nuovo invischiati l'uno nella rete dell'altra e lui ha ragione: la nostra relazione non ci stava portando da nessuna parte e mai l'avrebbe fatto. Capirà, so che capirà. Il terzo messaggio è di mio padre, che lavora olteoceano, in quella che era la vecchia Germania. O forse era l'Austria. Poco importa, non lo vedo da due anni se non attraverso le videochiamate e, ovviamente, non accenna a ritornare qui, anzi, c'è la possibilità che lo trasferiscano ancora più lontano. Ma dopotutto, perché dovrebbe tornare? Le nostre facce può vederle attraverso il GlassPad e, a dirla tutta, se mi dessero la possibilità di viaggiare, così come l'hanno data a lui, neanche io tornerei. Il messaggio dice di chiamarlo dopo le 21.00, manca ancora un'ora. Mi stiracchio e apparecchio la tavola, il timer suona poco dopo e finalmente posso placare il mio stomaco.

Un'ora dopo sono sul tetto, aspetto le 21.00 col GlassPad in mano. Guardo la città, ormai immersa nella buio, esplodere in mille luci fredde: il rosso violento degli stop delle macchine, i led azzurri in cima ai palazzi, il tricolore intermittente dei semafori, le lucciole bianche che coronano il profilo del Memorial Bridge riflettendosi in mille schegge galleggianti nel mare nero sottostante. Alzo il GlassPad e faccio una foto, apro il programma di editing e in verde pastello ci scrivo su - "Sono le 21.15, guarda quanto è bella la città, posso chiamarti?" - Invio il tutto a mio padre e pochi minuti dopo il GlassPad squilla, sfioro lo schermo e l'ologramma del volto di mio padre si materializza davanti a me. «Ciao tesoro, come stai?» mi chiede, sorrido al suono della sua voce scura «ciao papà, adesso sto bene, ho dormito fino alle sette e mezza. Pensi sia normale?» chiedo «così tanto? La mamma mi aveva parlato di semplici cali di pressione» chiede, con una punta di preoccupazione «sì, ieri sera però mi son sentita male di nuovo e quando sono crollata sul letto mi sono addormentata di botto, Dylan mi ha detto che ieri sera scottavo» dico «oh c'era lui con te? Mi sento più tranquillo allora. Comunque può darsi che la combinazione fra febbre e cali di pressione ti abbia destabilizzato abbastanza da farti dormire così tanto, hai mangiato?» chiede, premuroso «sì, quando mi sono alzata avevo una gran fame», «beh, questo è un buon segno, continua così per qualche giorno e non saltare i pasti. Ora devo andare tesoro, avevo solo una breve pausa fra un turno e l'altro, chiama quando vuoi. Baci» dice, con un sorriso, al che la comunicazione si chiude e lo schermo mi ripropone la foto dello skyline. L'orologio dello State High segna le 21.45, non è tardi ma domani dovrò comunque alzarmi per andare a scuola.

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