Between The Walls

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Riapro gli occhi, stanca di girarmi e rigirarmi nelle lenzuola ormai da quasi un'ora. Mi tiro su di scatto, nervosamente, i capelli scompigliati mi coprono gli occhi gonfi, reduci da un sonno troppo disturbato per essere considerato ristoratore. Li scosto con le mani e guardo fuori, il cielo azzurrino del mattino inonda il mio finestrone di una luce lattiginosa e abbagliante, decisamente troppo abbagliante per i miei occhi appena schiusi, che si riducono prontamente a due fessure. 

Dal mio letto non riesco a vedere l'orologio dello State High, appoggio la faccia fra le mani, poggiando i gomiti sulle ginocchia, per dare tempo al mio corpo di svegliarsi, a differenza della mia mente che è stata fin troppo sveglia, tanto da tenere sveglia anche me, per tutta la notte. Inspiro ad occhi chiusi, il profumo del sapone usato ieri sera per lavarmi le mani, seppur lieve, stuzzica le mie narici. Stiracchio le gambe e muovo le dita dei piedi, faccio per aprire le braccia e sbadigliare quando il solito pezzo degli Smith viene sparato a mille dalla sveglia, facendomi sobbalzare per lo spavento. Il braccio di Jorge sguscia fuori dalle lenzuola in cui durante la notte si è imbacuccato, spegne la radiosveglia e si rigira sulla schiena. «Un buon pezzo per svegliarsi» sussurra, ancora ad occhi chiusi, con la voce impastata dal sonno, «Scusa, con tutto ciò che è successo in questi giorni ho dimenticato di reimpostare la sveglia» dico, imbarazzata. Jorge finalmente apre gliocchi, «non preoccuparti, avevo il sonno leggero già da un po', sono abituato a svegliarmi presto, sia per il lavoro che al Nucleo» dice, scostandosi le lenzuola di dosso e alzandosi. Lo sento ciabattare verso la cucina mentre penso a quanto assurdi saranno i miei risvegli al Nucleo. «»Forza Lara, in piedi!«» lo sento gridare dalla cucina. Sbuffo, trascinandomi giù dal letto. Ciabatto verso la cucina, Jorge è alle prese con la macchinetta del caffé, così anche io mi cimento con la mia colazione, ma lui mi blocca mettendomi una mano sulla spalla, «la tua colazione è già lì» dice, e in effetti sul bancone ci sono già un bicchierone di latte alla ciliegia e un piattino di biscotti al mirtillo, il tutto su una tovaglietta. «Grazie, anche se avrei potuto farlo io» gli dico, mi sorride fugacemente prima di riportare la concentrazione sulla sua colazione, «non preoccuparti, meglio che mangi in fretta o faremo tardi» dice. «Tardi? Ma sono le otto meno un quarto, l'entrata è alle nove» protesto, a bocca piena, «sì, ma sai cosa significa mettersi in macchina a quest'ora, qui a Metropolys? Forza, fra venti minuti dobbiamo essere fuori o rimarremo imbottigliati nel traffico» mi dice, già a metà del suo tazzone di caffé. 

Mezz'ora dopo siamo effettivamente bloccati nel traffico, come aveva predetto, ma dal suo sguardo tranquillo deduco che non siamo a rischio ritardo. Essere portata a scuola in macchina mi fa sentire strana, neanche i miei mi ci portavano, persino alle scuole primarie prendevo il pulmino da sotto casa. Il pensiero di arrivare a scuola nel suo macchinone mi mette a disagio, la gente inizierà a chiedersi chi lui sia e, al momento, l'ultima cosa di cui ho bisogno è il mio nome sulle labbra di tutti. Ricordo ancora quando Dylan venne a prendermi dal mio armadietto all'ora di pranzo, il giorno dopo avermi baciata sul mio terrazzo, rendendo così pubblica la nostra relazione. L'intero corridoio si girò a guardarci. Dylan è alquanto popolare, e anche per questo vorrei evitare che gli occhi si puntassero su Jorge. Io, alla fine, sono ancora "la ragazza di Dylan", "l'ex di Dylan", e godo di attenzioni che non ho mai voluto, che non ho mai chiesto, alle quali non ho mai prestato particolare attenzione, ma che ora sono decisamente non necessarie, non è il caso di tirarsene addosso altre. Ricordo ancora il suo sorriso mentre mi porgeva la mano, i suoi occhi, la sua stretta rassicurante. Appoggio la testa al sedile e guardo fuori dal finestrino, nonostante tutto il viso di Dylan continua a portarmi fuori dalla realtà. Sospiro nel sentire questi pensieri schiacciarmi la mente. 

Jorge accosta davanti all'ingresso della mia scuola, il lieve contraccolpo dell'auto in frenata mi fa rinvenire dai miei turbini mentali. «Passo a prenderti alle 15.00, per qualsiasi cosa chiamami all'istante. Buona giornata«» mi dice, con un tono autoritario e un sorriso. «Sembri mio padre, Jorge» gli dico, alzando un sopracciglio, «non mi interessa, se ti senti male chiamami, puoi anchechiamarmi papà se vuoi, ma chiamami» dice, e il suo fare sarcastico mi strappa un sorriso. «Va bene, ciao» gli dico, chiudendo lo sportello. Lui mi fa un cenno con la mano e riparte. 

The Color Of City LightsDove le storie prendono vita. Scoprilo ora