Capitolo 18

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All'ombra delle grigi nubi mattutine, i guerrieri stavano facendo colazione con pane raffermo e carne di cervo, con lo stomaco in subbuglio per la tensione. Avevano bisogno di essere nel pieno delle loro forze. Si stringevano nelle pellicce e tremavano più per l'emozione che per il vento leggero ma freddo che soffiava dal nord. Per alcuni di loro il giorno, e quindi il momento della battaglia, era giunto troppo presto, ma non per Gudfred e i suoi fratelli. Erano ansiosi di battersi con il mostruoso nemico; la gloria li attendeva nelle sale terrene o nei palazzi divini. Come prima di ogni scontro mortale però, Gudfred ripensava alla sua vita e a ciò che aveva lasciato in sospeso. Non si era ancora sposato e non era riuscito a liberarsi del tutto dalla stretta paterna, questi i suoi due più grandi rimpianti, ma si disse che se fosse uscito vivo da quella situazione avrebbe rimediato. Capì, dagli sguardi pensierosi fissi a terra, che Rögnvald e Alemund stavano rimuginando sullo stesso tipo di riflessioni, e sentì all'improvviso un forte sentimento d'amore per loro. Quanto voleva bene ai suoi fratelli! Gli mancavano i giorni spensierati dell'infanzia, quando tutto era un gioco, tutto era meraviglia, e insieme crescevano uniti e forti. Erano i giorni in cui loro padre era ancora felice e la loro madre ancora viva. Gli sopraggiunsero allora in mente anche Hygd, sua sorella, e Eirik, il fratellino che già sognava avventure in luoghi lontani. Chissà come se la passava a Gotendur, solo con il padre, alla mercé del suo cattivo temperamento, senza i suoi fratelli maggiori a guidarlo come esempi. Avrebbe voluto che fosse lì con lui, in quel momento, per abbracciarlo forse un'ultima volta. Ma ad ognuno i suoi problemi e i suoi affanni; in fondo era giusto così.

Il manto cupo delle nuvole si aprì per un istante e uno spiraglio di luce proiettò una tetra ombra sui guerrieri, riportando al presente Gudfred e i suoi due fratelli. Quella torre aveva il potere di metterli di cattivo umore e sembrava sussurrare la loro distruzione. L'erede di Gotendur era però sicuro di avere gli dei dalla sua parte. Gli spiriti maligni non l'avrebbero contrastato; dopotutto, quel luogo aveva già visto la morte di un mostro una volta, e l'avrebbe rivista una seconda.

Si alzò. Scrutò i volti di ogni singolo uomo, e tutti compresero.

-Bruciate il legname.- disse solenne.

Era tempo di combattere.



Un alto falò si accese ben presto al centro del campo attorniato dai monoliti e le sue lingue ardenti si alzarono al cielo dipingendo il pallore delle rocce di una luce vermiglia. Due uomini vi gettavano lunghi rami per alimentarlo, mentre nei dintorni, nascosti da arbusti o distesi nel sottobosco, i loro compagni erano pronti a far scattare la trappola. La pira prese vigore e una colonna di fumo, densa e scurissima, si elevò mentre l'erba ghiacciata infradiciava il campo distendendosi al calore del fuoco.

Rannicchiato in un cespuglio puntellato di bacche rosse, Alemund stringeva impaziente la sua lancia, con lo sguardo perso nel cielo. Ogni orecchio era teso verso l'alto, nell'attesa di udire quel terribile ruggito e il poderoso sbattere d'ali che lo seguiva. Asce e spade aspettavano il loro momento, ma il solo suono che si poteva percepire era il crepitare della legna, e i passi dei due uomini che accorrevano per nutrirlo. Bastò poco tempo nell'immobilità affinché un senso di frustrazione si impadronisse dei guerrieri, troppo agitati da non poter pazientare a lungo, tormentati da quella calma che appariva loro infinita. Alemund stava per alzarsi quando la mano di Haraldr, acquattato accanto a lui, lo bloccò stringendogli il braccio. L'huskarl aveva sentito qualcosa. Tesero le orecchie. Niente. Poi un grido ferale risalì lungo il fianco della montagna e il mostro comparve lontano, una diabolica figura sopra i pini che ruggiva famelica. Ogni uomo cercò di farsi ancora più invisibile, e attesero per dei brevi ma lunghissimi istanti, mentre il drago veniva verso di loro. Volteggiando, l'essere proiettò la sua ombra sul campo e sui monoliti, disperdendo il fumo con la potenza delle sue ali. Il battito dei cuori nei petti degli umani accelerò all'impazzata di fronte a quello spettacolo terrifico ma la paura di una fuga senza speranza li ancorò ancor di più al loro proposito di sangue. Il drago si guardò attorno e fissò il rogo. "Vieni giù." Pensò Alemund "Avanti bastardo, ti aspetto." Un altro ruggito proruppe da quell'orrida bocca irta di denti, e il mostro fece un giro in tondo, fermandosi di nuovo sopra il fuoco, a osservarlo. Con un tonfo che fece tremare la terra atterrò al centro del prato, scavando con i suoi artigli nell'erba. Controllò ciò che lo circondava, muovendo a scatti la grande testa, e più di un guerriero fu sul punto di cedere, sentendosi i suoi occhi addosso. Fortunatamente si erano nascosti bene e il drago non riuscì a vederli, così con un altro grido ritornò con lo sguardo alle fiamme, rapito da quella danza calda e ipnotica. Alemund era stupefatto. La belva era davvero immensa, coi suoi venti piedi di lunghezza, esclusa la coda. Le scaglie brune rifulgevano di rosso ai lampi del fuoco, e le fauci grondavano bava mentre si aprivano e si serravano a intermittenza, quanto bastava per lasciare intravedere i denti affilati.

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