Capitolo 18

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Non è divertente come i ricordi che adulavamo prima di romperci in mille pezzi, possono diventare i tuoi peggiori nemici? I ricordi che amavi pensare, quelli che ti facevano ridere e ti davano speranza quando il sole smetteva di brillare- all'improvviso, è meglio chiuderli in una scatola dove non possono più fare del male a nessuno, perché dopo una rottura, anche il ricordo più bello diventa come un coltello che ti trafigge il petto. Quindi, non vorresti fare altro che prenderli tutti ed archiviarli in una cartelle, o meglio, eliminarli addirittura. Tuttavia, se prima questi pensieri potevano essere controllati, adesso diventa impossibile pensare ad altro. Non basterebbe metterli in un archivio, non basterebbe cercare di concentrarsi su altro, quei ricordi avranno sempre la meglio su tutto il resto e verranno a tormentarti ogni minuto del giorno.
Durante i miei studi, ricordo una "lezione" particolare a cui assistetti in passato. Una ragazza del mio corso era evidentemente triste, e non ci misi molto a riconoscere l'espressione sul suo volto: aveva rotto con il suo ragazzo. Lo sapevo perché per parecchio tempo io avevo avuto quella stessa identica espressione, e per quanto mi piacesse immaginare che l'avessi superato, sapevo che era ancora possibile vedere i miei occhi rattristirsi di tanto in tanto. Comunque, questa ragazza era una delle più brave che frequentavano il mio corso, quindi i professori non ci impiegarono molto tempo a rendersi conto che qualcosa in lei non andava, siccome i suoi test e interrogazioni stavano andando abbastanza male. Un nostro professore, perciò, un giorno decise di fare una lezione un po' diversa, cercando di coinvolgere anche la ragazza in questione. Ci parlò dell'amore, di quanto esso sia difficile- o per meglio dire, impossibile, nella maggior parte dei casi-, di come al giorno d'oggi sia difficile innamorarsi per davvero di qualcuno. Poi, continuò dicendo che spesso, le pene d'amore riuscivano ad avere delle ripercussioni sul nostro stato d'animo e sul nostro corpo, sia da un punto di vista fisico che mentale. Tuttavia, non ricordo perfettamente tutto ciò che ci disse, ma seppi, nel momento in cui le pronunciò, che non avrei mai dimenticato le parole che disse durante gli ultimi minuti di lezione: "<<Ogni singola emozione che prova il nostro corpo, dura concretamente solo per un paio di minuti, tutto ciò che avvertiamo dopo, è dovuto solo alla nostra mente>>".
Credevo che avesse ragione, perché altrimenti ciò significava che tutto il mondo avrebbe vissuto nella miseria, altrimenti. Quindi, capivo anche perché le persone con un carattere più forte potevano dare l'impressione di essere più "fredde" emotivamente, e perché quelli che ne avevano uno un po' più sensibile, fosse così facile essere "feriti". Veneravo davvero quelle parole, e per un po' ne feci il mio mantra, per cercare di eliminare definitivamente ogni singolo ricordo che avevo su di lei.
Adesso, però, sapevo che se mai fossi tornata indietro nel tempo, avrei alzato la mano per contestare questa affermazione. Inoltre, se il professore mi avesse chiesto perché ero contraria alle sue parole, gli avrei risposto:"<<Mi domando come la biologia può spiegare il dolore che senti al centro del petto, quando non vuoi fare altro che stare con qualcuno>>". Così, avrei creato sicuramente un dibattito, ma almeno mi sarei tolta un dubbio che mi era nato, sfortunatamente, un paio di anni dopo.
In poche parole, se non si fosse capito, ero miserabile da quella sera a quella festa. Una volta salita in macchina, ero tornata a casa dei miei genitori. Entrambi avrebbero solo voluto stringermi, ma ero riuscita a scivolare via dalle loro grinfie e mi ero rifugiata nella mia vecchia camera, chiudendo la porta con la chiave. Sapevo che mio padre non aveva sfondato la porta solo perché il suo braccio era ancora ferito, e sopratutto, mia madre gliel'avrebbe impedito eccome. Quindi, erano passati così cinque giorni ed io mi ero rifiutata di parlare con qualcuno, utilizzavo il bagno personale annesso alla mia camera e solamente la sera, quando Sofia mi portava da mangiare, aprivo la porta per poter cenare. Da sola. Nella mia camera, mentre affogavo nel mio dolore e nei miei pensieri.
Non passava giornata in cui i miei genitori provassero a parlarmi, a cercare di convincermi a venire fuori dalla stanza e parlarmi. Per quanto volessi il loro aiuto, il loro supporto, per quanto volessi sentirmi dire delle parole di conforto, sapevo che i loro commenti non sarebbero stati così positivi se avessero saputo la verità. Perciò, mi rifiutavo di uscire dalla mia stanza. Avevo rivolto brevemente la parola a Sofia la seconda sera, chiedendole se poteva riportare la macchina a casa di Normani, in modo da poterla restituire a Lauren. Poi, da lì, non avevo più rivolto la parola a nessuno.

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