La matriosca

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Sherlock ha passato i giorni dopo quell'evento seduto sul tavolino del salotto con le gambe incrociate, lo sguardo fisso sulla mappa del caso appesa sopra al divano. La sua espressione vuota, nessuna emozione a trapelare sul suo viso.
In più credo sia peggiorato. Si confonde spesso, dimentica le cose e i suoi attacchi di panico sono aumentati, così come quelli d'ira. L'ultima volta che ne ha avuto uno stava suonando il suo violino. Si è dimenticato le note e continuava a sbagliarle. Ha provato e riprovato così tante volte che alla fine ne ha avuto abbastanza. Lo ha scaraventato sul pavimento con tutta la forza che aveva e lo ha praticamente distrutto, facendomi sobbalzare dallo spavento mentre ero intento a preparare la cena. Subito dopo si è lasciato andare a un pianto disperato. Quella scena mi ha spezzato il cuore in mille pezzi.


Io non l'ho mai lasciato solo.


Quel caso significava molto per lui, avrebbe dimostrato che poteva guarire, che la sua mente non era del tutto danneggiata. Invece le sue speranze si sono sfumate in un attimo, e ora credo che quelle speranze le abbia perse definitivamente.
Ma lui non è l'unico a sentirsi uno straccio. Io, dal mio canto, mi sento il marito più inutile sulla faccia della terra. Certo, riesco a calmarlo, a rilassarlo quando non è del tutto in grado di controllare i suoi sbalzi d'umore, ma a parte questo resta il fatto che non posso fare di più, e darei la mia vita perché lui si senta meglio.
A volte mi ritrovo sveglio durante la notte a osservarlo. Si addormenta tardi perché non ci riesce, e il suo volto è sempre stanco e spossato, e nel vederlo in quelle condizione non riesco a trattenermi. Piango per lui, gli accarezzo i capelli pieni di riccioli ribelli e continuo a ripetere a bassa voce:
"Andrà tutto bene, sistemeremo tutto."


Ma cerco di convincere più me stesso che lui.


Oggi è la vigilia di Natale, e anche se so che questo evento non servirà a tirarlo su più del dovuto, spero solo che riesca a dimenticare i suoi problemi almeno per qualche ora. Abbiamo invitato a cena tutti i nostri amici e la sua famiglia. Mycroft ha stranamente accettato di venire, seppure odiasse il Natale tanto quanto lo faceva suo fratello, e immagino abbia accettato per controllarlo più da vicino. Avere un cognato che gli passa le informazioni tramite SMS non gli basta di certo.
Ho scelto un posto speciale, e quando l'ho detto agli altri non hanno esitato un momento a dare la loro approvazione. Di fatto, tutti hanno notato il repentino calo di umore e autostima di Sherlock e la mia idea, hanno detto, potrebbe aiutarlo a stare bene. Lui non sa niente e spero solo che con le sue doti deduttive non riesca a scoprirlo, seppure non siano funzionanti come ogni volta al cento per cento.
Quando mi sveglio non lo trovo accanto a me, e per un momento mi viene il panico perché nelle sue condizioni non so mai cosa potrebbe fare. Indosso una vestaglia e raggiungo il salotto, sbattendo gli occhi per la troppa luce improvvisa, tanto che sono costretto a portare una mano davanti agli occhi per non accecarmi. Non appena metto a fuoco riesco a vederlo: in mano ha una cartellina di plastica, si trova in piedi sul divano e con una lentezza disumana sta staccando dalla parete tutti gli indizi inerenti al caso per conservarli all'interno. A quanto pare ha deciso di darci un taglio, o almeno di provarci.
Annodo il laccio della vestaglia alla vita, poi mi passo una mano fra i capelli arruffati e mi avvicino solo di qualche passo. Sta osservando la foto di Ellen e la mano gli trema appena mentre la mette via.
- Tutto bene? -


Ovvio che non va tutto bene, che domande inutili fai, dottor Watson?


È colto di sorpresa, infatti sobbalza poco prima di voltarsi e guardarmi. Emette un sospiro e si limita ad annuire mentre si stropiccia gli occhi con il pugno chiuso.
Non faccio domande, non voglio chiedergli perché ha deciso di mettere via tutto proprio adesso, allora mi limito a raggiungerlo. Mi posiziono in piedi accanto a lui e comincio a staccare le foto dalle puntine, conservandole una ad una nella sua cartellina di plastica trasparente.
Sento il suo sguardo addosso per un paio di secondi, ma poi riprende da dove si è interrotto, facendo scivolare le puntine usate in un contenitore di vetro sul tavolino.
- Prima ha chiamato Lestrade e ha dato la conferma per stasera. - Mi dice ad un certo punto, dopo qualche secondo di assoluto silenzio.
- Bene! - Rispondo mentre metto via l'ultima foto. Adesso la parete è occupata soltanto dalla mappa di Londra. Lui getta via la cartellina, mancando il tavolo e facendola finire sul pavimento. Conoscendo il suo stato attuale, per un attimo ho creduto se la prendesse anche per questo, ma mi stupisce restando calmo e facendo come se non provasse alcun interesse su dove sia finita. - Dovrai dare una mano a me e alla signora Hudson con la cena, o credo che quella donna ti lascerà a digiuno. - Riesco a strappargli un piccolo sorriso, e per me significa già tanto. La stanza è piena di addobbi natalizi che ho in parte messo da solo. Lui non se la sentiva, a volte non riusciva nemmeno ad alzarsi dalla poltrona. Sta perfino evitando le sue sedute dallo psicologo, dice che non gli servono a nulla per il momento, che vuole stare per conto suo senza raccontare i suoi disagi a un tizio il cui unico scopo è infastidirlo con i suoi tic nervosi con la penna, almeno è così che ha detto Sherlock.
- Il digiuno è l'ultimo dei miei problemi ma... potrebbe anche rifiutarsi di prepararmi il tè. - In effetti non mangia molto, lo fa ma non quanto dovrebbe. Non è una novità per lui, ha sempre detto che mangiare lo rallenta, ma questo caso è diverso, non è un suo solito capriccio.
- Oh, non sia mai! - Esclamo, facendolo ridacchiare. Sento la sua mano nella mia e la stringo con dolcezza, poi mi decido a girarmi verso di lui. Mi guarda come se volesse dirmi qualcosa ed io sollevo confuso un sopracciglio. Apre la bocca, come per iniziare a parlare, ma poi sospira e poggia la fronte contro la mia spalla, chiudendo gli occhi e leccandosi piano le labbra. - Tutto ok? -
- Sì, io... ti volevo ringraziare. - Mi dice senza muoversi di un millimetro.
- Per cosa? -
- In questi giorni non sono in me, ti sto facendo uscire di testa e continui a sopportarmi comunque. - Quella sua affermazione mi fa sorridere intenerito, poi decido di girarmi verso di lui completamente, e di conseguenza lo costringo a sollevare la fronte dalla mia spalla e a nascondere il viso nell'incavo del mio collo. È alto, ed io sono basso, lo ammetto, ma non perde ugualmente l'occasione di farlo, incurvando la schiena quanto più possibile. Le mie dita si immergono fra i suoi ricci corvini e lo sento sospirare automaticamente, come se si stesse rilassando.
- In salute e in malattia, l'ho giurato. - Dico a bassa voce, e subito dopo la sua mano si sposta sulla mia schiena e stringe la mia vestaglia. Quel semplice gesto mi fa capire quanto mi consideri la sua roccia in un periodo del genere. - E non mi stai facendo uscire di testa. -
A quel punto solleva del tutto il viso e mi guarda negli occhi, la fronte pian piano si poggia contro la mia e dopo neanche qualche secondo le sue labbra sono sulle mie. È un bacio a stampo, e le nostre bocche premono fra di loro fino a quasi farmi male, trasmettendomi tutta la frustrazione, la rabbia, la tristezza che Sherlock ha provato in questi giorni, ma anche l'amore, quello che sta provando e che non si è mai affievolito, poi tanta gratitudine, come se fosse un altro modo per ringraziarmi, e mentre le nostre labbra si schiudono lentamente e avverto la sua lingua chiedermi il permesso di procedere, le sue mani affusolate mi incorniciano il viso con dolcezza.
L'impeto e la passione di quel bacio mi fanno indietreggiare di un passo e per poco non precipito sul pavimento, Sherlock però ridacchia e mi afferra appena in tempo dal laccio della vestaglia, impedendomi di cadere. Mi stacco dalla sua bocca con una risata e sposto le braccia attorno al suo collo, poi ci stringiamo e in questo momento non abbiamo bisogni di fare altro se non chiudere gli occhi e godere del calore del corpo dell'altro.
Il resto della giornata lo passiamo a preparare ogni sorta di leccornia per la serata. O meglio... io e la signora Hudson, Sherlock ha preferito "supervisionare". Ci ha provato a fare qualche piccolo passaggio da solo, come tagliare le verdure o preparare il tacchino. La cucina non fa proprio per lui, alla fine si è limitato a passarci qualche utensile, a fare domande sull'improponibile colore del maglioncino a fantasie natalizie della signora Hudson e ad assaggiare per verificare la "commestibilità".
Quando abbiamo impacchettato tutto il cibo ci ha guardati come se fossimo pazzi.
- Mangeremo fuori. -
Gli ho detto io con un'alzata di spalle non curante. Lui è sembrato all'inizio abbastanza offeso per non averlo saputo prima, ma poi ha deciso di mettersi addosso qualcosa di decente, invece dei pantaloni della tuta e quella t-shirt larga che non toglie da un pezzo.
L'ho aiutato con la doccia. In realtà l'abbiamo fatta insieme ma Sherlock aveva davvero bisogno d'aiuto. Era determinato sul fatto che volesse cavarsela da solo, ma quando per l'ennesima volta ha sbagliato bottiglietta del sapone o ha rovesciato sul pavimento di ceramica della doccia tutto il bagnoschiuma, mi ha chiesto con occhi lucidi e voce tremante e frustrata di aiutarlo.

Recovery || JohnlockDove le storie prendono vita. Scoprilo ora