13. Out of my head

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«È assurdo! Che fine ha fatto la presunzione di non colpevolezza? Se l'opinione pubblica lo ha già dichiarato colpevole, lo farà pure la giuria. E noi siamo fregati!»

Mark Valentine era seduto di fronte a lui, proprio sulla sedia su cui, fino a qualche minuto prima, era stata Jennifer. Teneva una copia del Times tra le mani e parlava, parlava da quando aveva messo piede in quella stanza, aveva energia da vendere il ragazzo, mentre lui, invece, non riusciva a stargli dietro, non lo ascoltava più.

Il fatto che fosse così attaccato al suo lavoro era positivo, non lo metteva in dubbio. Ci teneva, era attento, instancabile, molto simile a come era lui fino a poco tempo prima, uno stacanovista che, però, sapeva anche divertirsi, sapeva godersi la vita senza trascurare la sua professione, al contrario di Julian, e gli era grato per questo, gli era grato soprattutto perché, da quando aveva preso il posto del cugino, lo studio legale era rinato, avevano più cause da affrontare e più denaro in banca.

Quel giorno, però, dargli retta era una vera impresa, e nemmeno sapeva spiegarsene la ragione.

«Ne verremo fuori alla grande, come sempre» sentenziò sprofondando nella poltrona. In realtà, voleva solo tagliare corto, e sperò che Mark capisse l'antifona.

Non gli aveva ancora detto di Jennifer, di aver quasi assunto la nuova segretaria. Avrebbe voluto farlo, in realtà, ma qualcosa lo bloccava. Sentiva di non essere in pace con se stesso, di non aver ponderato abbastanza la questione, prima di correre dietro alla donna in corridoio, prima di comunicarle la decisione di tenerla in prova, di farle quel regalo. E ora, oltre a darsi mentalmente dell'idiota, aveva la sensazione di essersi fatto imbrogliare. E la cosa gli dava sui nervi.

Doveva ammetterlo, la bionda sapeva il fatto suo, gli era sembrata davvero disperata, mentre cercava di convincerlo a darle una possibilità, e poi, dopo averla vista con gli occhi pieni di lacrime, non aveva più avuto dubbi: era sincera, aveva davvero bisogno di un lavoro e lui, sebbene non fosse un pezzo di pane, non era nemmeno una specie di Grinch. Solo che, adesso, qualcosa lo turbava, temeva di aver commesso un grave errore, di essersi mostrato debole quando, in realtà, non lo era per niente.

Dare una possibilità a Jennifer Clark significava averla tutti i giorni tra i piedi, rivivere a oltranza l'incubo di Long Beach, fare i conti ogni minuto con la sua prorompente personalità, con la sua isteria, con quel seno che pareva ogni volta più grosso.

Come diavolo aveva fatto a non pensarci prima?

«Ehi? Ci sei?»

La mano di Mark che gli sventolava davanti agli occhi lo riportò al presente.

«Sì... No. No, ero distratto, scusami.»

Mark sorrise, mollò il giornale sulla scrivania e si mise a braccia conserte, infine sospirò. «Avanti, vuota il sacco. Chi è? La conosco?»

Andrew aggrottò la fronte. «Di che stai parlando?»

Il ragazzo inarcò un sopracciglio, sul volto aveva un'aria divertita. «Della tua distrazione. Tu non sei mai distratto, deve esserci per forza una donna di mezzo!»

«Ti sbagli» replicò Andrew iniziando a irrigidirsi. Non gli piaceva il discorso che stava cercando di intavolare. Non parlava con nessuno della sua vita privata, e Mark avrebbe dovuto saperlo, dato che più volte aveva tentato di estorcergli dettagli senza riuscire nell'intento.

«Perciò... non c'è una donna che ti agita il sonno?»

«No.»

«Okay, allora ti parlerò della mia!»

Andrew scosse la testa, sulle labbra aveva un mezzo sorriso. «Senza offesa, non credo che possa interessarmi...»

Mark battè i palmi sul ripiano davanti a sé. «Fa' un piccolo sforzo, ho bisogno di dirlo a qualcuno!» piagnucolò. Dei suoi venticinque anni non sembrava esserci traccia, in quel momento, dava più l'impressione di essere un ragazzino alla prima cotta. O una femminuccia. Era questo l'effetto che facevano, a lui, le donne?

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