16. Magic Jennifer

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Il resto del weekend lo passò sul divano, con la sola compagnia dei Kleenex e di una bottiglia di vino rosso.

Non riusciva proprio a spiegarsi come si potesse essere tanto stronzi e insensibili, e la scusa che Andrew avesse sofferto per colpa della donna che amava, della quale si fidava ciecamente, non reggeva più.

Non metteva in dubbio quella sofferenza, ma non poteva scaricare la rabbia e la frustrazione su di lei che, invece, desiderava le sue attenzioni e il suo rispetto; su di lei che con le disavventure – sentimentali e non – che, purtroppo, gli erano capitate non c'entrava un bel niente.

Jennifer avrebbe solo voluto che le restasse accanto, la sera della festa e anche quella dopo e quella dopo ancora, ma lui era fatto di ghiaccio, e il fuoco che lei gli trasmetteva, o che tentava di trasmettergli, non lo scalfiva. Quell'uomo non si sarebbe sciolto mai, era irrecuperabile.

E non faceva che sparare una cazzata dopo l'altra.

Mark. Dagli una possibilità, è un bravo ragazzo. Poteva ancora sentire la sua voce ferma, profonda, mentre glielo diceva. E non avrebbe mai scordato lo sguardo che aveva accompagnato quelle parole. Si era sentita sporca e inutile sotto quegli occhi vitrei e, se il ragazzo non si fosse prodigato a lasciare l'appartamento, probabilmente sarebbe esplosa, gliene avrebbe dette di tutti i colori, anche a costo di farsi cacciare a calci dallo studio legale, nonostante i calci nel culo li meritasse tutti lui.

Quel lunedì mattina non stava meglio dei giorni precedenti, ma aveva comunque deciso di presentarsi al lavoro. Sapeva che non sarebbe stato semplice fare finta di niente, anche perché non poteva evitare di incontrare Andrew, di interagire con lui per tutta la giornata, poteva solo sperare che non avesse bisogno di lei più di tanto, che avesse l'accortezza di lasciarla in pace, dopo l'esito di quel maledetto venerdì.

Gli consegno il caffè senza guardarlo in faccia, poi mi volto e mi dileguo, si disse, con il bricco della bevanda nella mano destra, prima di bussare alla porta che la divideva dal protagonista dei suoi incubi peggiori e dei suoi sogni erotici più conturbanti.

La aprì col cuore a mille, era terrorizzata, ma si costrinse a rimanere impassibile, a non tremare.

«Buongiorno, avvocato. Il suo caffè!»

Avanzò con gli occhi bassi verso la scrivania, adagiò il bicchiere sul ripiano più lucido che avesse mai visto e, proprio come aveva prestabilito, girò i tacchi e raggiunse l'uscio.

«Ehi!»

La voce di lui le arrivò alle spalle come un colpo di frusta. Alzò gli occhi al cielo, fece un respiro profondo e si voltò. «Sì?» A quel punto, fu obbligata a guardarlo. Andrew teneva la schiena contro la spalliera imbottita della sua poltrona e la fronte aggrottata, tra le dita una penna che ticchettava ritmicamente su alcuni fogli davanti a sé.

«Cos'è questo?» le domandò indicando il bricco con un cenno del capo.

«Il suo caffè. Amaro e bollente come piace a lei» lo canzonò.

Andrew inarcò un sopracciglio. «Dove lo hai preso?»

«Due piani sotto, dove c'è lo studio dentistico.»

«Al distributore?»

«Sì! Dovreste sistemarne uno anche qui, è comodo, ormai sono ovunque!» E abbozzò un sorriso.

Ma Andrew non rise.

«Non bevo il caffè della macchinetta» sentenziò in tono neutro. Per quanto fosse evidente il suo disappunto, sembrava sforzarsi di mantenere la calma.

Jennifer cadde dalle nuvole. «Io... non lo sapevo, mi scusi. Non ho fatto in tempo a passare dal bar e pensavo che non ci sarebbero stati problemi se...»

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