Il ragazzo entró di corsa, attraversando le porte scorrevoli. Aveva il fiatone e i capelli ancora umidi. Quando aveva ricevuto la chiamata dall'ospedale, non si era nemmeno preoccupato di asciugarseli completamente, infilandosi i privi vestiti che gli erano capitati in mano e salendo in macchina il piú velocemente possibile.
Da quasi due mesi viveva in quel modo. Ospedale, casa. Casa, ospedale.
Lo avevano chiamato spesso, dicendogli che la situazione peggiorava di giorno in giorno e che i medici non sapevano con esattezza se si sarebbe svegliata o meno.
Si passó una mano tra i capelli e raggiunse una delle tante infermiere, vicine alla stanza numero 17.
"Come sta?" chiese, preoccupato. Non gli avevano detto nulla al telefono, solo che la ragazza aveva avuto un altro attacco e che, quella volta, sembrava anche piú grave degli altri.
Restó in silenzio, aspettando la risposta da parte dell'anziana infermiera davanti a lui. Prese un profondo respiro, cercando di nascondere la paura.
Il pensiero di poterla perdere gli faceva quasi venire le gambe molli, insieme alle lacrime agli occhi.
"Abbiamo dovuto sedarla, ora sembra che la situazione si sia stabilizzata. Il battito cardiaco è tornato regolare, ma non sembra dare segni di miglioramento" spiegó, controllando una cartelletta che, saldamente, stringeva tra le mani.
Annuí, lentamente. "Posso entrare?" chiese, titubante, come ogni volta.
L'infermiera sorrise, vagamente, annuendo. "Certamente. Quando c'è lei, è come se si sentisse meglio" commentó l'anziana, aprendogli la porta della camera, per invitarlo ad entrare.
"La ringrazio" disse, entrando. Si chiuse la porta alle spalle, osservando la ragazza distesa su quel lettino di ospedale.
Vederla in quello stato era una tortura quasi peggiore della morte. Deglutí, nervosamente, avvicinandosi alla sua solita postazione. Si sedette sulla sedia azzurro pallido, scomoda e ridiga.
Scostó una ciocca di capelli corvini dal volto pallido della ragazza. Vederla con la flebo attaccata al braccio, un tubo al naso e degli elettrodi al petto.
Era una tortura.
Allungó una mano, afferrando la sua, stringendola forte. Era fredda e bianca, sembrava quasi morta. Il ragazzo sospiró, passandosi la mano libera tra i capelli, sempre umidi.
"Ti prego, svegliati" sussurró, poggiando la testa sulla sua pancia, stando attento a non schiacciargliela troppo. "Ti prego, svegliati. Ti prego... ti prego..." continió a ripetere ininterrottamente, chiudendo gli occhi e continuando ad ascoltare il rumore della macchinetta che calcolava il suo battito cardiaco.
Solo una volta, in quei due mesi, l'aveva sentito diventare irregolare, per poi cessare di colpo. In quel momento si era sentito morire anche lui.
Continuó a tenere gli occhi chiusi, nonostante sentí la porta della camera aprirsi.
"Sei giá qui?" una voce maschile richiamó la sua attenzione, la riconobbe subito, ma non alzó la testa e nemmeno aprí gli occhi. Si limitó ad annuire, aumentando la presa sulla mano della ragazza.
"Vuoi un caffè?" chiese e il ragazzo annuí ancora. Sentí il rumore della porta aprirsi e, successivamente, chiudersi. Sospiró, riprendendo la sua cantilena.
"Ti prego... ti prego..." la voce ridotta ad un sussurro e la paura perfettamente palpabile. Strinse ancora piú forte la mano della ragazza e, per un momento, gli sembró di sentire anche la mano di lei, stringere la sua.
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Rocksville
Fanfiction"Nessuno esce vivo da Rocksville. Loro cercano sempre spiriti da aggiungere alla collezione e tu, Dana, saresti perfetta. Loro vogliono te." "Loro chi, Harry?" "Non tutti gli spiriti sono buoni, Dana e i Rocks sono i peggiori."