1. Occhi angelici

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N I N A

Entrai dentro l'edificio, uno dei tanti edifici di New York. Le pareti erano color limone chiaro e le grandi finestre facevano intravedere i diversi negozi al piano terra. Dei divani si trovavano in mezzo alla stanza e alcune persone, perlopiù uomini di una certa età, erano seduti su quest'ultimi, intenti a leggere qualche foglio.

Mi guardai intorno e mi sentii a disagio in quella sala portatrice di ansia.
Era stata una pessima idea venire senza avvisare, ma non potevo nascondere a mia madre una cosa del genere. Aveva il diritto di sapere e io le avrei raccontato tutto nei minimi dettagli, sperando in una reazione positiva da parte sua.

Mia mamma si sarebbe incazzata, me lo sentivo. Un vago fastidio alla bocca mi diceva ciò, infondendomi ulteriore agitazione. La conoscevo, sapevo com'era fatta, cosa provava quando nominavo quella persona. Sapevo che si sarebbe scaldata, ma in fondo ero certa che mi avrebbe capita, che si sarebbe messa al mio posto.

Immersa nei miei pensieri, in mezzo alla lussuosa sala, sentii uno sguardo insistente su di me. Quando indirizzai gli occhi verso la persona in questione, notai un uomo robusto e calvo, vestito elegantemente, fissarmi con ostinazione. Seguì i miei timidi movimenti e si avvicinò di qualche passo. I suoi occhi piccoli e scuri mi osservavano attentamente e io, non riuscendo a reggere il suo sguardo indagatore, iniziai a guardare le mie Converse bianche e consumate sentendomi fuori luogo in quell'edificio che con me non aveva nulla a che fare.
Non sapevo cosa dire e cosa fare e, come se mi avesse letto nel pensiero, lui parlò per primo, avvicinandosi ulteriormente.

"Cosa desidera, signorina?" La sua voce roca mi fece alzare leggermente lo sguardo, che prima era concentrato su qualcos'altro.

"Signore, io dovrei parlare con mia madre. Lavora in quest'azienda."

"Chi è sua madre?" Chiese ancora. Inarcò le sopracciglia, si guardò intorno e si concentrò poi di nuovo su di me.

Stavo per rispondere, quando sentii alle mie spalle un grande trambusto. Mi voltai verso la porta principale, poco distante da me. Notai subito un uomo incappucciato con accanto una ragazza bionda. Si stavano tenendo per mano, camminando velocemente per entrare dentro l'ascensore. Scomparirono subito dopo, inghiottiti da delle persone con le fotocamere in mano, che chiedevano qualsiasi cosa, spingendosi l'uno contro l'altro, a volte anche con violenza.

Giornalisti!

Non immaginavo che vita fosse quella sotto i riflettori, sempre al centro dell'attenzione. Avere paura di fare un passo falso, di sbagliare perché si sa, la gente vuole questo. Metterti in difficoltà per crocefiggerti davanti a tutti.

"Signorina..." Il portiere tossì leggermente, per catturare la mia attenzione.

Arrossii. "Susan Calderon."

Tenni gli occhi fissi sulla persona di fronte a me, mentre con le mani torturai gli anelli che si trovavano nelle mie dita.

"È al ventesimo piano, signorina." M'informò, dopo aver controllato sul suo tablet qualcosa. "L'ascensore è di là." Indicò con il dito l'angolo che mi interessava.

"Grazie."

Gli feci un piccolo sorriso, prima di entrare dentro l'ascensore. Cliccai il numero 20 e aspettai impaziente.
Sentivo il fastidioso suono che quella cabina emetteva, le luci ti accecavano a causa della loro intensità, lo specchio davanti rifletteva la mia vera immagine. Mi guardai e cercai di domare velocemente i miei capelli, aggiustai di fretta i pantaloncini corti e la maglietta, aderente perfettamente alle mie forme, bianca.

Andrà tutto bene. Pensai.

Le porte si aprirono, mostrandomi una grande sala d'attesa. Davanti a me, distante pochi passi, c'era una scrivania bianca con sopra un computer e infiniti fogli sparsi sul ripiano. Di lato, alla mia sinistra, si trovava un divano a L grigio e in un punto della stanza c'era un piccolo bar.

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