Prologo

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"We're smiling but we're close to tears,
Even after all this years, we just now got
The feeling that we're meeting for the first time".

San Francisco; 2013

Suppongo che la mia visione della vita sia cambiata radicalmente nel momento in cui ho trovato Ben Stanley - ancora lo ricordo, il nome di quello stronzo - nel letto dei miei genitori, in quello che sarebbe dovuto essere il posto occupato da mio padre, mentre metteva in atto le sue prestazioni fisiche con mia madre. Avevo diciassette anni, e, per carità, non mi sconvolgevo certo per così poco. Il punto era che io ero veramente così stupido, così inetto e così ingenuo, da ritenere che i miei genitori si amassero reciprocamente ai limiti dell'immaginabile. Ero troppo cieco per capire che quel sentimento era a senso unico, e che quella strada l'aveva imboccata solo papà. Lei non si accorse di me, in quella particolare circostanza, ma Ben Stanley sì. E lo ricordo ancora come se fosse accaduto ieri, il modo stomachevole in cui mi aveva supplicato in ginocchio di non farne parola né con mio padre né con sua moglie, offrendomi addirittura una mazzetta. Avevo sicuramente più testosterone che neuroni in corpo, ma, in quel caso, ebbi l'intelligenza di rifiutare, girare le spalle e andarmene. Probabilmente fu il mio scombussolamento - e, di conseguenza, i sensi di colpa - a far cantare mia madre come un uccellino, fatto sta che papà lo venne a sapere poco tempo dopo. Sarebbe superfluo raccontarti come reagì. Ti basti sapere che, qualche mese dopo, io e lui eravamo già su un aereo diretto in America, a casa. Il tribunale aveva lasciato scegliere a me - e l'avvocato che aveva curato il divorzio era molto in gamba -, per cui non ci avevo pensato due volte ad andare dietro a mio padre. L'avrei fatto anche a occhi chiusi. Per me è sempre stato un modello da seguire e da imitare, lui. Ammiravo anche e soprattutto la sua fermezza, e il fatto che fosse rimasto impassibile quando mamma era scoppiata in lacrime, al verdetto del giudice che stabiliva che sarei stato affidato alla custodia di papà. Certo, in quel momento si mostrò indifferente, ma quella sera stessa, a solo qualche settimana dal trasloco, lo sentii piangere attento a non far rumore, mentre passavo davanti alla camera degli ospiti nella quale si era confinato. La mia non è mai stata una famiglia benestante, direi piuttosto molto modesta. Lui faceva il falegname, lei la pasticcera in una pasticceria di poco conto. Arrivavamo a stento a fine mese, se andava tutto bene. Immagino che già mantenere me fosse difficile, e che quindi l'ipotesi di un fratellino o di una sorellina fosse esclusa a priori. Lo avevo capito sin da bambino, quando, un giorno, li avevo uditi litigare proprio per quel motivo. Dopo il divorzio mi sentii quasi in colpa, perché sapevo che avrei gravato sulle spalle di uno dei due più che mai. Lui avrebbe dovuto sostentare sia se stesso che me con quelle poche sterline che guadagnava, e avrebbe addirittura perso i suoi clienti di fiducia a causa del trasferimento. Non ti nascondo che, come ogni ragazzo o ragazza nella mia stessa situazione che si rispetti, considerai la supposizione che fosse tutta colpa mia. Mi domandai se le cose sarebbero andate diversamente, se non ci fossi stato. Se avrebbero continuato ad amarsi come un tempo. Se... Se sarebbe finita ugualmente. Ma non esternai mai a nessuno dei due i miei dubbi. Sfogavo le mie frustrazioni in musica - e ora sono due anni che non tocco più uno strumento. Non avevo molti amici, all'epoca - ma, in verità, non li ho mai avuti, perché sono sempre stato un tipo che se ne sta per conto proprio -, però mi trovavo bene con un paio di ragazzi che avevo conosciuto nel pub in cui suonavo qualche sera, e che suonavano a loro volta. A volte abbiamo anche eseguito qualche pezzo insieme, ma le canzoni che scrivevo io rimanevano solo tra me, le pagine spiegazzate del mio quaderno, e le quattro pareti della mia stanza. Avevo imparato a suonare la chitarra da autodidatta, a quattordici anni, guardando dei video su Internet e facendo pratica con la chitarra di Jimmy - un mio vicino di casa con cui trascorrevo occasionalmente i pomeriggi. Non me l'ero mai sentita di mettere su un capriccio per frequentare un corso. Diciamo che sono cresciuto troppo in fretta, e, soprattutto, quando non ero per niente pronto a farlo. Partecipavo a numerose serate che quel pub organizzava per guadagnare più soldi possibili per contribuire, almeno in parte, alle spese domestiche. Mamma pensava che andassi a drogarmi, o direttamente a spacciare sostanze stupefacenti - per farti capire quanto bene mi conosceva. Papà declinava sempre le mie offerte di denaro. E allora, quando ammucchiavo un bel gruzzoletto, glielo ficcavo nel portafoglio a puntate, così da non fargliene accorgere. Ma se ne accorgeva sempre, invece, e non so se saprei descriverti la gioia che provai quando mi regalò una vera chitarra acustica, tutta mia, comprandola con i soldi che gli avevo consegnato io. Ha sempre pensato prima a me e poi a se stesso. Io mi reputavo un egoista, invece, e credevo che non sarei mai stato capace di assomigliargli anche solo un minimo, come avrei voluto. E sai perché ero un egoista? Perché quando ci siamo trasferiti per la prima volta dall'America all'Europa, in Irlanda - dato che mamma aveva decretato che gli Stati Uniti erano troppo cari per viverci -, io non ero passato a salutarla. E, sì, sto parlando di lei. E sai perché non sono andato a salutarla? Perché io già sapevo di amarla oltre ogni confine, allora. E ti chiederai come facesse un ragazzino di appena quattordici anni a sapere cosa fosse l'amore. E io non te lo saprei spiegare. Ma non è stata una cosa che è spuntata così, dal nulla, da un giorno all'altro. È stato un sentimento che è maturato e che si è concretizzato piano piano, nel corso degli anni. E io volevo dirglielo. Ma avevo una paura fottuta che lei non avrebbe ricambiato. Eppure in cuor mio sapevo che ricambiava, anche se non me l'ha mai confessato. Ed era quella la cosa che mi terrorizzava di più, in realtà. Perché, se lei avesse ammesso di amarmi a sua volta, se io quel giorno l'avessi baciata... Sarebbe stato un bacio d'addio, ma io non sarei mai stato capace di andarmene. Mentre avevo la stupida convinzione che, non salutandola neanche, avrei potuto credere che lei non fosse innamorata di me come io lo ero di lei, e che per lei la mia partenza sarebbe stata meno dolorosa, che se ne sarebbe presto fatta una ragione. Solo anni dopo ho compreso quanto male le avevo arrecato con quel gesto, e ancora oggi non riesco a perdonarmelo. Ecco perché ero un egoista: non avevo pensato a lei. Ma mi promisi che avrei rimediato, quando, tre anni dopo, tornai in America con papà e lasciai l'Inghilterra - residenza di cui avevo usufruito solo per pochi mesi. Sai, non ho mai creduto nel destino. L'ho sempre ritenuta una credenza insensata di persone che cercano una scusa da affibbiare alle stronzate che commettono.

Celeste - La miglior cosa che non ho mai avutoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora