| Quarantaquattro |

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Quarantaquattro.

Quarantaquattro, come i giorni trascorsi da quel maledetto 16 settembre.

Quarantaquattro, come le persone che avevo accompagnato dall'altra parte fino ad oggi. Donne e uomini, anziani e bambini, la maggior parte a causa di terribili incidenti stradali, proprio come era accaduto a me.

Li porto via piano, possibilmente mentre stanno dormendo, chiudendo loro gli occhi e prendendoli per mano. Una lacrima riga sempre il mio volto mentre osservo i loro visi pallidi ma sorridenti stringersi forte attorno al mio braccio. Svolgo il mio lavoro in silenzio, cercando di non essere notata e, una volta terminato il mio compito, me ne vado esattamente come sono venuta, senza fare rumore, accompagnata solo dal tremolio che le mie scarpe, sempre slacciate, fanno sul pavimento lucido ed immacolato dei corridoi dell'ospedale.

Quarantaquattro giorni in meno al termine di questa tortura che non ho meritato, che non ho chiesto e che, nonostante tutto, devo continuare a sopportare senza potermi ribellare, senza poter ribattere.

Una tortura che, so per certo, mi porterà alla pazzia, una prova decisamente più grande di me, una sfida che so già di non poter vincere.

Un brivido freddo si fa spazio lungo la mia schiena, mentre una coltre di fumo nera mi avvolge, distogliendomi dalle mie cupe riflessioni mattutine.

-Puoi smetterla di fumare, per favore?- sbotto, tossendo un poco e cercando di farmi aria con una mano.

-No- sospira la figura completamente vestita di nero accanto a me. Porto entrambe le braccia al petto offesa, mentre cerco di scaldarmi un poco stringendomi nel pesante giubbotto invernale.

-Non credevo che i corsi universitari mi sarebbero piaciuti tanto-

Rido sarcastica a quell'affermazione che esce dalle sue labbra carnose, mentre lo osservo stuzzicarsi il piercing al lato del labbro.

-I corsi o le ragazze presenti ai corsi?- domando con falsa espressione innocente, ricevendo come unica risposta una pessima occhiata, una delle più inquietanti a dire la verità.

Ma non ho paura, non questa volta: in fondo non stavo raccontando alcuna bugia e entrambi ne eravamo consapevoli. Da quando il fantomatico Luke Hemmings aveva fatto il suo ingresso in università gli occhi delle ragazze erano completamente rivolti a lui, ai suoi occhi così chiari e intensi, al suo piercing e a chissà quali altre parti del suo corpo. Mi limito quindi a sogghignare divertita di fronte alla sua espressione arrabbiata, segno che ho fatto davvero centro nel suo orgoglio, nel caso la Morte dovesse averne uno.

Il viaggio verso l'università procede nel silenzio più totale e quasi snervante, ma non ho né tempo né voglia di occuparmi degli sbalzi d'umore di uno spettro, per cui mi limito a osservare silenziosa il paesaggio spoglio intorno a me, perdendomi nuovamente nei miei pensieri: le case da cui escono grossi sbuffi di fumo, gli alberi nudi, secche e striminzite foglie lungo i viali, ragazzi che corrono per cercare di non perdere il pullman, uomini e donne in macchina per raggiungere il luogo di lavoro, il profumo dolcissimo delle brioches calde ed appena sfornate; ogni piccolo particolare di questa città mi fa sentire cosi dannatamente viva e, allo stesso tempo, cosi dannatamente infelice perché sono consapevole che la mia vita sia sempre in bilico tra la salvezza e l'oblio, ancora per duecentosessantuno giorni.

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Prendo posto al mio solito banco, il terzo nella penultima fila, prima di appoggiare con noncuranza il mio zaino a terra. Luke fa lo stesso, sedendosi accanto a me, come da quotidiano programma. "Sarò la tua ombra Abigal" mi aveva avvisata, anche se la sua costante e indelebile presenza al mio fianco comincia a starmi un pò stretta.

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