𝟷𝟺 | 𝑾𝒂𝒊𝒕

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Ogni canzone è un bambino che nutro e a cui do il mio amore. E anche se non hai mai scritto una canzone, la tua vita è una canzone.

Michael Jackson

• 21 Febbraio 1984 - 21:48 •

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• 21 Febbraio 1984 - 21:48 •

«Grazie per la giornata,»

«No, grazie a te.»
Pronunziammo entrambi timidamente.

«Allora... ci vediamo» parlò, allontanandosi di qualche passo da me, in segno della sua imminente partenza.
Non volevo farlo andare via, era troppo presto per me. Mi ero divertita insieme a lui. Mi ero divertita più di tutte quelle volte che incontravo Mia, a casa in Italia. Più di tutte quelle volte che ero stata con i miei genitori. Più di tutte quelle volte che giocavo con i miei cani. E tutto questo, in un solo pomeriggio. Mi ero sentita bene. Lui fu l'unica persona con la quale mi ero sentita libera, con la quale avevo dimenticato tutti i problemi della mia vita, godendomi in pieno ogni secondo della giornata.

«Aspetta...» allungai il braccio, afferrando la sua giacca e tenendola stretta tra le dita, per bloccarlo il più velocemente possibile.

«Dimmi,» proferì, quasi in un sussurro impercettibile. Con la sua mano afferrò la mia, carezzandone dolcemente il dorso con il pollice e sorridendomi lievemente. Il suo tono fu più dolce del cioccolato; mi fece rallegrare così tanto che i miei pensieri, seppur per qualche secondo, si confusero mandandomi in palla il cervello.
Una volta tornata sulla terra, pensai a che cosa dirgli. Insomma, non potevo certo chiedergli di rimanere più tempo con me, visto che eravamo rimasti insieme per tutta la giornata. Mi balzò in mente il suo lavoro. Il cantante. Sicuramente non era un lavoro semplice. Aveva bisogno di riposare, forse il giorno dopo sarebbe dovuto andare in studio a registrare qualche canzone o qualcosa di simile. Sicuramente si sarebbe dovuto svegliare presto e avrebbe dovuto lavorare. Non aveva tempo per me.
Il suo lavoro lo prendeva molto, me lo confessò lui stesso. Forse non era il caso di sottrargli ulteriori ore di riposo.
Lasciai lentamente la lieve presa che avevo sulla sua mano e sorrisi.

«Volevo semplicemente dirti che... forse un giorno verrai anche tu a casa mia, in Italia.»

«Non vedo l'ora, Dali. Buonanotte.» sfoggiò uno dei suoi sorrisi più belli. Alla vista di tanta perfezione, mi tremarono le gambe, tanto che dovetti reggermi alla maniglia della porta per poter stare in piedi. Fortunatamente non se ne accorse, almeno, così sembrò.

«Buonanotte.» lentamente si mosse, mi sorrise di nuovo, e si voltò, camminando lungo il corridoio, raggiungendo l'ascensore. Osservai la sua figura per qualche secondo, aggrappata allo stipite della porta, per poi ritirarmi nella mia buia camera d'hotel. Le luci erano spente. L'unico riverbero che illuminava fiocamente la stanza, era il debole bagliore della Luna. La stanza era immersa in una sfumatura bluastra ed era abbastanza fresca, per via della portafinestra socchiusa, dalla quale entrava una dolce brezza serale. Mi avviai lentamente verso ad essa, per poi aprirla ed uscire sul balcone. Appoggiai gli avambracci sulla ringhiera e mi godetti il fresco venticello, facendo ampi respiri a pieni polmoni. Osservai la Luna, alta e maestosa, temporanea padrona del cielo sovrastante, bianca come il latte.

Non avevo mai avuto l'occasione di osservarla attentamente con i miei occhi. L'avevo studiata molto, sapevo tutto su di lei, ma non l'avevo mai osservata. Forse perché la mia vita in Italia, seppur essendo semplice, era molto indaffarata e mi portava via molto tempo. Stavo la maggior parte della giornata segregata in casa a studiare o leggere. Era una vita molto ripetitiva, ma mi ero abituata alla sua monotonia, tanto che, quando mia madre mi chiamò per venire a Los Angeles, non ebbi perfino l'intenzione di uscirne. Ormai ci vivevo, era il mio quotidiano, e, nonostante mi mancasse, ero stata fortunata a liberarmene, a capitare a Los Angeles.

Sinceramente, non me ne volevo più andare, non volevo più tornare in Italia. Volevo restare lì, ma sapevo anch'io che non sarebbe stato possibile. In un certo senso, nella mia mente si stava formando l'idea di trasferirmi a Los Angeles, ma sarebbe stato molto difficile se prima non avessi trovato un lavoro. Avrei anche dovuto lasciare i miei studi all'accademia e questa fu l'unica cosa che davvero mi astenne dal trasferirmi. Non volevo mandare tutto all'aria. Mi ero preparata per anni, solo per entrare in quell'accademia, ed in quel momento, ebbi l'intenzione di lasciarla senza neanche aver finito l'anno. No, no. Sarei comunque dovuta tornare in Italia, prima o poi. Non sapevo cosa fare.
Scossi la testa, tentando di liberarmi da tutti quei pensieri che si erano ammassati nella mia mente, poi tornai in stanza. Osservai il pacchetto di sigarette sul tavolino. Per la prima volta da quasi quindici anni, costatai che non c'era bisogno della "sigaretta della buonanotte". Indossai semplicemente il mio pigiama e mi infilai sotto le coperte. Mi addormentai quasi immediatamente, visto che la giornata che mi stavo lasciando alle spalle era stata molto vivace e piena di emozioni.

*****

• 22 Febbraio 1984 •

Il cinguettio degli uccellini, simbolo dell'imminente arrivo della primavera, mi invase l'udito, svegliandomi dolcemente.
La prima cosa che mi passò per la testa, come sempre, dopo tutto, fu l'orario, così, rigirandomi nel letto, raggiunsi la sveglia, la afferrai e la portai davanti ai miei occhi assonnati. Lessi l'orario: 07:06. Era abbastanza presto, ma stranamente non ci feci caso. Riposi la sveglia al suo posto e, svogliatamente, mi alzai. Cominciai la mia routine mattiniera con il pettinarmi. La prima cosa che facevo, di solito, la mattina era pettinarmi. Odiavo avere i capelli disordinati perché mi riportava a quando ero piccola. La mia testa era piena zeppa di nodi. Erano dei grumi enormi che i miei genitori cercavano di snodare con una semplice spazzola. Quando andai dal parrucchiere, dovetti tagliarli corti, come un ragazzo. A scuola mi prendevano spesso in giro per la mia capigliatura maschile, ma nonostante questo, i miei capelli si erano snodati ed erano lisci, seppur corti. Le ciocche crebbero velocemente e nel giro di due o tre anni, mi ritrovai i capelli lunghi fino alla fine della schiena. Avevo sempre amato i miei capelli. Lunghi, mori e morbidi. L'unica pecca di questa chioma era la sua finezza. I miei capelli erano talmente fini che c'era un'alta possibilità che si annodassero tra di loro, e per questo, dovevo pettinarli spesso.
Appena posavo la spazzola, naturalmente, curavo la mia igiene intima.
Dopo questo, facevo colazione, quindi mi avviai al telefono della stanza e chiamai la reception, ordinando quello di cui avevo bisogno per una colazione leggera e magra.
Mi sedetti sul letto in attesa di poter asciolvere.

Mi sdraiai con il busto e chiusi gli occhi, quasi ad addormentarmi. Lo squillo del telefono, però, mi fece alzare. Risposi.

«Ehy»
Michael.

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