Prologo

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Goal tra tre, due, uno...

Metà dell'enorme stadio si alzò in piedi con uno scatto, sbraitando dalla gioia. Bandiere e bandierine rosso-nere vennero agitate tra la folla, mentre tifosi dalle magliette a strisce bianco-nere si portarono le mani sul volto, piangendo dalla disperazione.

Un fantastico Krzysztof Piatek all'attacco, un goal che fece sognare. Mancavano solo novanta secondi alla fine della partita, faticavo ancora a crederci. Oramai avevamo vinto, la vittoria sarebbe stata nelle nostre mani. Finalmente una meravigliosa sconfitta.

L'arbitro fischiò e la partita finì.
La squadra del mio cuore prese la rincorsa e si riunì in un caldissimo abbraccio. Aurora, la mia migliore amica, mi buttò le braccia al collo. Aspettavamo entrambe quella benedetta partita da mesi, i ragazzi ce l'avevano fatta. Sentii alcune lacrime di felicità rigarmi il viso, non avevo mai assistito ad una partita così bella. Ricambiai quindi la stretta della mia compagna di partite e mi asciugai le lacrime.

"Hai visto che goal?", mi chiese Aurora mentre saltellava sulla gradinata, "Non ci posso credere!" 

Nemmeno io potevo crederci; in realtà, nessuno di noi se lo sarebbe mai aspettato. Quella sera fu una sorpresa per tutti quanti, soprattutto per i bianco-neri, che furono finalmente sconfitti.

"Sì, Auri, ce l'hanno fatta." 

Quella volta fui io a tuffarmi tra le sue braccia. Quello era uno di quei momenti della vita che non avrei mai scordato, uno di quelli che avrei ricordato come la mia 'felice e spensierata gioventù'. 

Scusate l'interruzione, non mi sono presentata.

Mi chiamo Amalia Ferraris, più comunemente detta Lia, nata a Torino ma cresciuta a Milano, grande capitale della moda e del design, in cui vivo ancora oggi. 

Vissi con la mia famiglia nel centro della città, in un condominio abbastanza tranquillo per essere una delle vie più frequentate.  L'appartamento era abbastanza grande per essere in quattro: mamma Anastasia e papà Mirko, e il mio dolce e coccoloso fratello, Riccardo.

Io e Riki avevamo due anni di differenza, la più piccola ero e sono tuttora io. Tutto questo era abbastanza snervante, ma a volte anche vantaggioso. Inutile negare che c'erano momenti in cui avrei preferito farlo fuori una volta per tutte , la sua arroganza nell'essere il più grande mi faceva imbestialire. Alla fine, però, era un ragazzo come tanti, semplice e buono. 
Per quanto riguarda me, in quegli anni ero una ragazza semplice e buona, a volte troppo, ma anche molto permalosa e lunatica, non lo nego. E lo sono ancora, ad essere sincera. Ero una ragazza che non aveva molti peli sulla lingua, quello che dovevo dire lo dicevo, tenendo sempre conto dell'educazione.

Trascorsi la mia adolescenza all'istituto d'Arte, ma alla fine finii per fare tutt'altro.
Trovai un piccolo lavoro nella biblioteca più bella di Milano, e fu proprio lì che conobbi Aurora. Un semplice scontro e un semplice scusa hanno fatto nascere una splendida amicizia, che ci accompagna oramai da tantissimi anni.

Aurora era una di quelle ragazze che non ti stanchi mai di avere al tuo fianco. La sua ironia e la sua continua voglia di fare ti faceva innamorare di lei, della sua compagnia. Ricordo ancora quando, in biblioteca, ci scontrammo.
Quel bruttissimo bernoccolo in fronte mi rimase per un bel po'. Lei stava sistemando qualche libro nella sezione 'Opera e Critica', ascoltando 'Aurora' del suo amato Eros Ramazzotti. Io camminavo per le varie corsie, cercando di trovare qualcuno che mi potesse dare una mano con alcuni scatoloni di libri nuovi. 

Potete già immaginare.

Trovai una ragazza dalla chioma bionda e molto riccia che mi diede subito una mano, sorridendomi. Non so ancora come, ma inciampai su uno scatolone e andai a sbattere contro il capo di Aurora, che camminava davanti a me. Insomma, rimasi giorni stesa sul mio letto con il ghiaccio sulla fronte. Un inferno.

Cavolo, sto dicendo davvero troppo. Volevo raccontarvi qualcosa di me, invece sto scrivendo un intero libro. Vabbè, arriviamo al succo del discorso.

Come tutte le ragazze della mia età, anch'io avevo una passione. Una passione che, spesso, veniva sottovalutata e ridicolizzata: il calcio.
Secondo le parole di mamma, cominciai a seguire le partite di calcio da piccolina, quando papà ed un piccolo Riccardo si preparavano all'inizio del primo tempo o si divoravano con gli occhi se la squadra preferita dell'altro era in vantaggio. Ancora oggi mi riguardo alcuni video ripresi dalla mamma, dove i due uomini di casa si godevano appieno ogni partita e non ne perdevano un solo secondo. Mamma Anastasia confidava in me, sperava non diventassi una fanatica del calcio. Troppo tardi. La domenica io, papà e Riki eravamo sempre stesi sul divano con le magliette della propria squadra o le fascette in testa. Insomma, pareva di stare allo stadio.

A sei anni lasciai la danza classica di cui, sinceramente, me ne importava poco e niente, e cominciai a giocare in una squadra femminile di calcio. Ero piccola, ma avevo già capito che la danza non mi avrebbe dato molto nella vita. Mamma ci teneva che diventassi un po' come lei, ma capì subito che non sarebbe mai successo. Diceva che la mia finezza e la mia dolcezza mi avrebbero portata lontano. Cazzate, in campo ero tutto tranne che fine.

Il calcio, per me, era ed è tutt'ora la mia vita, ma dovetti smettere.
Appena presa la patente, feci un incidente con la macchina, uno di quelli che ti segnano la vita. Venni operata d'urgenza ad un ginocchio rimasto incastrato tra il volante e il sedile, che scampò l'amputazione. Da quel momento fui obbligata a smettere di giocare. Così, in pochi giorni, il sogno di entrare nella squadra della nazionale italiana di calcio femminile venne completamente cancellato, ed una parte di me ne risentì talmente tanto che per un po' smisi persino di guardare le partite in televisione. 




𝐿𝑎 𝑝𝑎𝑟𝑡𝑖𝑡𝑎 𝑑𝑒𝑙 𝑐𝑢𝑜𝑟𝑒 | I.BDove le storie prendono vita. Scoprilo ora