II

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Non è facile prepararsi per qualcosa che non si conosce. L'ultima volta che avevo avvertito una traccia demoniaca era stato all'incirca quattro anni prima, a Giacarta, in Indonesia. Mi chiamò un vecchio amico che si era trasferito lì per lavoro. Aveva radunato tutti gli esseri soprannaturali che conosceva per affrontare un demone che identificammo come un Pendakian - che significa letteralmente arrampicarsi in indonesiano - che di fatti era salito sul monumento nazionale che gli abitanti del luogo chiamavano Monas, una torre di 145 metri. Combattere a quell'altezza era stato uno dei momenti più spaventosi ed eccitanti della mia vita. Ad ogni modo, la sua traccia non era così forte e soprattutto, non aveva fatto nevicare, anche se con un po' di esperienza avevo capito che quasi ogni demone ha una propria traccia e che spesso sono influenzate dalla natura stessa del demone, da come è nato, dai suoi poteri. Questo significava che non avevo niente su cui prepararmi se non al freddo, ed optai per un allenamento base con guantoni e sacco da boxe.

Ricordo perfettamente che mentre colpivo (destro, sinistro, destro, calcio col destro, schiva a sinistra, ripeti) con tutta la forza ed entravo in una sorta di trance allontanandomi da quello che mi circondava, dai miei pensieri e il mio passato, per un secondo o forse anche di più, riuscivo a sentire di nuovo la stessa melodia che mi dava speranza nel sogno che facevo spesso. Bastava rinsavire perchè fosse del tutto scomparsa e mi domandavo se non l'avessi sognata di nuovo. Smisi di allenarmi, dovevo conservare le forze per la notte.

Aspettai l'una e mezza ma ero troppo agitato per i miei standard (solitamente mantenevo il sangue freddo in ogni situazione) e continuare a muovermi su e giù per l'appartamento, fissare continuamente l'ora e ascoltare con l'udito da lupo il film che stavano guardando i coniugi Carter al piano di sopra non sarebbe servito a nulla. Per questo presi le chiavi di casa e uscii facendo molta attenzione a non fare rumore chiudendo il portone principale. Powell Jr Boulevard era quasi deserto. D'altronde, il lunedì notte non c'era troppo da fare in giro. Pochi taxi passavano per strada accompagnando i turisti che avevano preso alloggio ad Harlem dove costava molto meno verso la vita vera di Manhattan, quella che si vede nei film e che inizia a Time Square. I lampioni illuminavano i negozi chiusi e davanti alle vetrine dei ristoranti dove passai vidi i camerieri sistemare i tavoli e la mise en place per i clienti del giorno dopo. Incontrai il cameriere del ristorante messicano - El Paseo - e chiamarlo ristorante era fargli un grande complimento, dove prendevo il cibo da asporto ogni tanto. Il giovane magro come uno stuzzicadenti e visibilmente stanco dopo una giornata di lavoro stava portando un sacco dell'immondizia nero che pesava il doppio di lui sul retro.

«Cómo vas Derek?!» mi aveva sorriso.

«Hola Felipe» gli avevo risposto e avevo tirato dritto. Dovevo rimanere concentrato. Per un momento, mentre continuavo a camminare, mi soffermai a pensare che lui, come quasi nessuna delle persone che conoscevo a New York, poteva avere idea di chi fossi davvero, dei miei poteri, della mia natura, di quello che facevo davvero per vivere - dicevo di essere un detective, non volevo allontanarmi troppo dalla realtà e sembrava essere credibile - e nessuna di quelle persone lo avrebbe mai saputo. E se anche l'avessi raccontato a qualcuno nessuno mi avrebbe creduto. E se anche qualcuno mi avesse creduto (eppure mi sembrava uno scenario possibile quanto Mrs. Crowford che mangia cibo messicano da asporto) nessuno avrebbe voluto avere a che fare con tutto quello: demoni, lupi mannari, scontri, sangue, morte. Girai a destra sulla 131esima strada. Certe volte mi chiedevo se io l'avrei scelto: nascere in un branco non ti pone in condizione di compiere molte scelte e alcune volte mi sono immaginato come un umano qualsiasi, un vero detective forse, ma poco prima di cadere nel baratro dei "forse", dei "se" e degli "avrei potuto" facevo un passo indietro e piantavo i piedi nel cemento. Ero quello che ero e non potevo cambiarlo, non sapevo neanche se lo volevo davvero.

Quando arrivai in prossimità del ponte avvertii la traccia, decisamente più debole di quella mattina. Il freddo glaciale era una leggera aria fresca e non sentivo, fino a quel momento, nessuno dei sintomi che avevo sperimentato prima. Ero teso e concentrato e mentre salivo sul ponte mi guardavo intorno in cerca di qualsiasi cosa. Quando arrivai su non c'era nulla degno di nota. Passai il cartello con lo sfondo verde con su scritto Willis Avenue Bridge all'inizio della struttura di ferro intrecciato che fungeva da tetto. Sfrecciarono due pullman entrambi provenienti da Manhattan e diretti verso il Bronx, nessun'altra macchina, nessun passante. I rumori della città non arrivavano lì su, dove tutto sembrava essersi fermato, compreso il tempo. Mi accorsi che il ponte era molto più buio del solito, le luci dei faretti collocati nell'impalcatura non funzionavano e la poca luce che c'era veniva da lontano, dall'insegna della iHeart e dal ponte vicino. Smisi di camminare, respirai profondamente e concentrai tutti i miei sensi nell'udito. Cominciai a sentire il rumore dell'acqua del fiume Harlem che scorreva metri sotto di me, sia quella in profondità sia quella sul bordo che camminava sui ciottoli vicino le sponde. Continuai, e sentii le voci degli operai della fabbrica di tessuti sulla 132esima, i motori delle macchine che passavano sulle strade vicine, le voci che uscivano dalle radio e dalle televisioni. Ascoltavo e scartavo quello che non mi serviva. Arrivai a coprire un'area di circa due chilometri quando finalmente sentii qualcosa di interessante: urla di dolore. Iniziai a correre prima di rendermene conto lasciando spazio all'istinto e al fiuto. Correvo verso le strilla agonizzanti e non perdevo la traccia, segno che ero sulla strada giusta. Quando arrivai davanti il cancello chiuso con il lucchetto del St. Mary's Park non avevo più bisogno dell'udito da lupo: anche le orecchie di un umano avrebbero sentito lo strazio di quelle urla. Tutto il parco era circondato da una recinzione alta due metri ma saltare e atterrare dall'altro lato non fu un problema. Ricominciai a correre e presto sentii di nuovo il freddo che quella mattina mi aveva quasi pietrificato. Si insidiava sotto la pelle, sentivo i peli delle mie braccia rizzarsi e sfiorare l'interno del mio giubbotto di pelle. Mi concentrai e continuai. Non potevo tornare indietro, non potevo abbandonare chiunque stesse soffrendo. Eppure... eppure ad ogni passo verso quella cosa che ancora mi era estranea la paura, il terrore - non miei, sentivo che mi venivano impiantati nella testa e non mi appartenevano - mi facevano desiderare di girarmi e andarmene, far finta di niente, tornare alla mia vita. Come avrei potuto?

What Was Left BehindDove le storie prendono vita. Scoprilo ora