CAPITOLO 22 - Ritmo

78 6 0
                                    

Ognuno ha il proprio e non vi é cosa più sacra.
Il ritmo é vita.
Soccombere a quello di qualcun'altro anche per una nobile causa come quella di amare potrebbe rivelarsi fatale. É come se si costringesse un fiore a crescere velocemente in pieno inverno, per puro piacere. La vita é ritmo ed ogni essere vivente ha il proprio. Sarebbe un peccato non sincronizzarsi sul proprio, si finirebbe per vivere una vita che non ci appartiene. In un mondo veloce come questo non c'é cosa più complicata di quella di rallentare, di rispettare le proprie tempistiche biologiche, naturali, assolutamente normali. Il ritmo moderno ci trasforma in macchine: costrette a confrontarsi con motori che non si fermano mai, con informazioni che non riescono ad essere assimilate, con un apprendimento che é alla portata solo di pochi che, nel tentativo di sforzarsi per una vita intera ce la fanno, con il risultato di diventare bravi in qualcosa che non li rispecchia, qualcosa che se per caso si ferma o ci prova, muore, realizzando di non aver mai ascoltato realmente i propri battiti. La societá ci costringere a vivere con un grosso senso di colpa dietro la schiena che involontariamente ci spinge a gettarci tra la folla tentando la corsa a qualcosa che non siamo o non desideriamo davvero. Quello del ritmo é un vero e proprio senso e lo si può ascoltare mettendo insieme tutti quelli che conosciamo già. Se si ha la sfortuna di nascere fra persone che oscurano o deridono il nostro, uno dei nostri motivi di vita dovrá diventare quello di riconquistarlo con ogni forza, a costo di risultare egoisti o arroganti agli occhi dei corridori.
Il ritmo é prezioso. Il ritmo é vita.

Camminava con il cuore in gola verso l'imbrunire. I suoi respiri affannosi producevano piccole nuvolette, le prime della stagione. Il passo non era il suo solito rilassato. Somigliava più a quello di qualcuno che conosceva bene la fuga e desiderava darsela a gambe il prima possibile. La meta in un mondo di paure é il nascondiglio. Nel mondo reale é un negarsi un' esistenza vera e peropria. Non sarebbe voluta scappare di nuovo. Non avrebbe voluto preoccuparsi di che cosa gli altri avrebbero pensato ma stava accadendo ancora. Voleva fermarsi, il fiato era corto e la gola iniziava a pizzicarle fra un respiro freddo e l'altro.
Non c'era marciapiede, percorreva la strada a bordo banchina fra la linea bianca e la striscia di prato nel mezzo del nulla. Pensò per qualche istante che il luogo che la circondava era bellissimo: minuscole colline in un paesaggio naturale con poche case distribuite in modo casuale che davano un tocco in piú alla vista.
Non era passata nemmeno una macchina da quando aveva lasciato la villetta di jack e non riusciva ad intravedere nemmeno una fermata dell'autobus lungo il percorso. "Arriverò fino a quella piccola frazione, non dovrebbe mancare molto" pensò, accelerando il passo. Che cosa avrebbe fatto una volta rientrata a casa? Questo non riusciva a chiederselo, qualcosa dentro di lei le diceva di rallentare e dopo averlo ignorato diverse volte le arrivò una piccola fitta al torace che la fece preoccupare. Quindi si fermò. Il grande potere del corpo quando viene ignorato: una ribellione inconscia che troppe volte non ascoltiamo fino all'ultimo. Riprese fiato, sentendosi stupida e sola. Cercò un fazzoletto nella tasca del giubbotto rosa e si soffiò il naso. Provò uno sconforto profondo che aveva tutto il sapore dell'abbandono. Era quasi infantile il suo modo di vivere le ingiustizie lasciando che la lacerassero così tanto. Quando avrebbe imparato a parare i colpi? A non farsi colpire nascondendosi? Le sembrava di essere sbagliata anche nel difendersi. Non poteva nemmeno sperare che qualcuno la proteggesse al posto suo ,sebbene in cuor suo lo desiderasse. Difendersi avrebbe comportato prendersi le proprie responsabilità, sbagliare in continuazione, proteggere il suo valore interiore che preferiva far finta di non avere perché così le avevano insegnato. Il valore é una cosa che va pari passo con la conquista, più fai, più porti a casa, più vali o così le avevano fatto intendere tutti quei silenzi quando era piccola. Eppure non poteva essere così.
Il grigio dell'asfalto si era fatto antracite e gli alberi erano diventati di un verde e marrone scuro. Riprese a camminare e si vergognò quando dalla direzione opposta arrivò una macchina che passò senza fermarsi.
Le sue mani si erano colorate di rosso ma ormai mancava poco, riusciva ad intravedere i cavi ed i binari del treno.
Era una stazione piccola e dovette fare il biglietto alla macchinetta perché non vi era una biglietteria. Il treno arrivò poco dopo e si sentì sollevata quando si accomodò in una carrozza semi deserta. Andò nel panico nuovamente quando frugando mella borsa non riuscì a trovare il suo cellulare. Prese un bel respiro per evitare di piangere visto tutto il nervosismo accumulato. Si concentrò sui colori delle poltroncine in finta pelle blu, sbattendo gli occhi velocemente per scacciare via le lacrime. Le immagini di Marco che baciava Melody non riuscivano a scomparire dalla sua mente: ogni volta riprovava lo stesso sentimento di quel momento, un miscuglio di sfiducia, ingiustizia, perplessità. Di nuovo sola, in un mondo che non le apparteneva, del quale non sapeva nemmeno se fidarsi o no. Si alzò poco dopo che l'autoparlante annunciasse del loro arrivo a Milano Centrale. Sorrise quando scese dal treno in silenzio, rapita dalle luci della stazione e dalla calca di persone caotiche che si muovevano in direzioni diverse. "Che senso hanno le mille carinerie e gli ammiccamenti se poi é così facile lasciar perdere tutto?" Disse sottovoce come se avesse un confronto con sé stessa.
Si lasciò alle spalle i grossi tabelloni degli arrivi e delle partenze e percorse l'atrio dai pavimenti in pietra rosati. Non prese le scale mobili per scendere sottoterra, si diresse verso il bar 4 della stazione, forse avrebbe incrociato Giovanni. Ordinò un caffè nel piccolo locale che sembrava completamente diverso da come lo ricordava quella notte che aveva litigato con Giovanni.
Osservò con attenzione la poltroncine sospese di colore blu dov' era seduta quella sera, immaginando la discussione che aveva avuto. La barista con fare dolcissimo stava nella stessa posizione di Giovanni mentre preparava il caffé. Si voltò e con aria interessata chiese: "va tutto bene?"
Rimase sorpresa da quella domanda e quasi le venne da piangere per il tanto interesse da parte di una sconosciuta.
Trattenne le lacrime e fece cenno positivo con il capo, buttando giù il caffè d'un fiato.
<<Grazie, buona serata>> disse la barista osservando la ragazza lasciare il bar in fretta.
Percorse la lunga scalinata verso l'uscita principale rallentando il suo ritmo. Si sentì finalmente in una zona sconosciuta, lontana da tutti. Si accese una sigaretta appena uscí dal porticato, alzò gli occhi spostandoli dalla fiamma dell'accendino alla piazza davanti a lei.
Sorrise mentre delle lacrime iniziarono una discesa silenziosa.
Era come se lo ricordava: biondino, con quell'aria un po' sfacciata di chi se ne frega di quanto possano far male le cose pur di averle. Il suo sguardo duro si lasciò andare ad un'espressione dolce appena la vide.
<<Non ci ho messo molto a trovarti, bambolina>>.

Qualcosa senza loroDove le storie prendono vita. Scoprilo ora