Astronauti

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Carino.

Chissà perché lʼavevo sempre descritto solo ed unicamente così.
Quella notte, accucciata per terra al di sopra del suo zaino vuoto, mi resi conto per la prima volta di quanto quellʼaggettivo non gli rendesse giustizia.

Le mani dei ragazzi erano sempre state una mia debolezza, avevo una sorta di fissazione, per le mani curate, con le unghie corte, ma non mangiucchiate, le dita lunghe il gusto, nè troppo nè troppo poco, e lʼosso del pollice leggermente sporgente.
Per non parlare degli anelli.
Se avevi delle mani del genere, e in più portavi degli anelli, probabilmente ti eri già guadagnato tutta la mia attenzione.
Avevo notato le mani di Tancredi quasi subito, quando ci eravamo presentati quel giorno in radio. Sebbene fossi leggermente più presa dai suoi occhi e dalla sua statura, non mi erano certo sfuggite. Erano perfette. Ovviamente, non glielo avevo mai detto, nè probabilmente l'avrei fatto.
Però, vedendolo trafficare con le bombolette, con le dita sporche di inchiostro e il cerchio di metallo che portava sempre attorno al medio, mi resi conto di quanto fosse affascinante.
Non solo carino.
Ovviamente, non potevo dare tutto il merito alle mani, era oggettivamente un bel ragazzo che non aveva praticamente nulla fuori posto.
O almeno non per me, che non ero mai stata attratta da uomini particolarmente muscolosi e con i lineamenti troppo duri.
Mi piacevano tanto i suoi, più delicati, a tratti quasi infantili, mi piaceva che non avesse molta barba e che fosse così piccolino.
Mi piacevano le sue labbra gonfie, seppur sempre screpolate (o squarciate, nellʼultimo paio di giorni), le sue gambette da stambecco e le sue ciglia lunghe.
Mi piaceva e basta, e chissà perché ci avevo messo così tanto ad ammetterlo a me stessa.
Non che fossero passati decenni da quando lo avevo conosciuto, ma di solito lo capisci subito se qualcuno ti piace o meno.
Io, forse, lʼavevo anche capito, ma semplicemente non mi andava di arrendermi allʼidea.
Posai il mento sulle ginocchia, incrinando la testa per guardarlo meglio. Teneva un pennarello nero stretto tra i denti, anche se non capivo il perché, dato che non lo stava usando.
Come se avesse ascoltato le voci nella mia testa, rimosse lʼoggetto dalla bocca, infilandoselo in tasca.

"Mi consumerai." Disse, senza mai staccare gli occhi dalla parete.

Stronzo. Come mi aveva vista? Credevo fosse super concentrato, odiavo quel suo essere così furbo ed intelligente, mi stanava sempre, qualsiasi cosa facessi o pensassi.

"È quello che sto cercando di fare, così non ti avrò più tra i piedi."

"Ripetilo senza piangere."

"Stai zitto." Lo ammonii, mentre riprendeva a spruzzare della vernice rossa.

Psichedelico e intrippante.

Era vero, avevo guardato i suoi schizzi, e comunque già conoscevo i disegni che c'erano sui muri, e quasi tutti ritraevano personaggi particolari, con le zanne o la testa aperta dalla quale spruzzavano fuori strani liquidi verde fluo, omini tremolanti con i pattini o che vomitano gelato. Ed erano davvero belli.
Ma sfogliando nel suo quadernino, avevo trovato un disegno che mi aveva colpito seppur non avesse quasi niente di psichedelico.
Era un astronauta che stringeva un mazzo di rose rosse tra le mani.
Tutto qui, semplice, e probabilmente non molto affine agli altri, ma dopotutto era stato sempre lui a realizzarlo, e aveva davvero suscitato qualcosa in me.

"Hai sonno, Lù?"

"No." Risposi prontamente, ma lui non sembró convinto, e si voltò a guardarmi.

"Sei sicura?"

"Non ho sonno, giuro. Mi rilassa vederti disegnare, continua."

"Ti rilassa, mh? Perciò non pensi più che sia una cosa stupida?"

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