Tancredi

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Luce.

Che strano nome, non mi ci ero mai ritrovata molto. Da una persona che si chiama Luce probabilmente ti aspetti che sia l’anima della festa, che sia solare, e magari che le piaccia anche stare al centro dell’attenzione.

Io non ero certo una di quelle ragazze timide ed impacciate alle quali usciva molto più spesso una risata nervosa che una battutina tagliente, ma nemmeno la persona più interessante che si potesse incontrare.

E mi piacevano le attenzioni, mi piaceva dire la mia, come si poteva intuire dal mio lavoro, ma senza la necessità di essere sempre la star della situazione.

Ero nella media, lo ero sempre stata, così come ero sempre stata convinta di non meritare un nome tanto particolare, essendo una ragazza fin troppo ordinaria.

Proprio perché sentivo di non essere speciale, mi era capitato spesso anche di chiedermi perché qualcuno avrebbe dovuto, tra 7 miliardi di persone, scegliere me.

Eppure era successo.

Io ho sempre scelto te.

Come aveva potuto? Perché io?

Avevo provato a chiederglielo, inutilmente, dato che la sua risposta era stata darmi della psicanalista del cazzo, testuali parole.
Ma io volevo saperlo, volevo saperlo così tanto.

Lui, invece, era così orgoglioso del suo nome.

Ogni volta che si presentava a qualcuno, chiunque fosse, appena la parola Tancredi gli lasciava le labbra, gonfiava il petto come un tacchino e si pavoneggiava tutto.

Ma gli si cuciva davvero addosso.

Lʼavevo paragonato all’arcobaleno, una volta.

Perché era rosso, come la passione che metteva in ogni cosa gli piacesse, rosso come il suo carattere impossible da domare.
Verde come la sua intelligenza, che spiccava molto più di quanto non credesse, e il colore dei suoi occhietti.
Giallo come la felicità e la pace che riusciva a infondere alle persone anche solamente scattandosi una foto, solo perché era luminoso, luce nel buio.
Blu come le mille insicurezze che si portava dietro ma non si sarebbe mai, mai, deciso a mostrare, tenendole nascoste nel cassetto delle cose che gli facevano paura.
E poi, viola.
Senza aggiungere altro, perché era semplicemente il colore che più di ogni altro riusciva a trasmettermi serenità e pace.
Quasi tutto era sempre stato di quella tonalità, attorno a me, perciò era diventato simbolo di posto sicuro.
E anche lui, col passare dei mesi, lo era diventato.

“Sai che noi due non abbiamo mai avuto una vera uscita galante? Cioè, di quelle tipo al ristorante con le candele e tutto il resto.” Mi disse un giorno.

Era domenica, c’erano venticinque gradi e noi eravamo sdraiati per terra sul prato di un parchetto, a fissare il cielo, che era così limpido da sembrare quasi disegnato.

“Quelle cose di solito si fanno all’inizio.” Risposi, socchiudendo gli occhi mentre aspettavo che la mia melanina si risvegliasse. “Tipo, per corteggiare.”

“Cosa cerchi di insinuare?” Cambiò immediatamente tono, mettendosi sulla difensiva. Eccoci di nuovo. “Io t’ho corteggiata pure troppo, per i miei standard.”

“Credimi, di questo non ho mai avuto il benché minimo dubbio. E comunque, non mi sto lamentando, sai che ho amato l’hamburger da five guys e il polpettone di Lele.”

“Non capisco se cerchi di prendermi per il culo o cosa, nel dubbio, fottiti.”

Riaprii un occhio, vedendolo con le braccia strette al petto e la bocca storta, segno che si stava masticando l’interno della guancia.

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