Viola

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Un giorno voglio venire a casa tua. Tu stai sempre qui mentre a me non è permesso nemmeno vedere com’è fatto il posto in cui vivi?”

“Non credere che sia un grande privilegio passare tanto tempo in questo manicomio.”

“No? Scendi dal mio letto allora.”

Mi aveva poi letteralmente trascinato per terra, imponendomi di non mettere più piede all’interno del suo appartamento se mi faceva tanto schifo, io gli avevo baciato il broncio mentre continuava a lamentarsi e a sputare il suo solito veleno da acido del cazzo.

Sembrava che fosse successo due milioni di anni fa, mentre erano passati solo una manciata di giorni, ma quella conversazione mi era tornata in mente quando lui mi aveva scritto che anche a costo di farsi tutta Milano a piedi avrebbe trovato casa mia e sarebbe venuto a parlarmi, perché dovevo sapere cosa realmente fosse successo.

Ma io lo sapevo cos’era successo, semplicemente che il lupo aveva perso il pelo ma non il vizio.
O forse era anche peggio, magari erano sempre stati d’accordo.

I social mi stavano facendo sospettare cose strane, dato che quel video era già spopolato in rete, e tutte le pagine erano letteralmente impazzite.

«Oh mio Dio, l’avevo detto che stavano insieme!»
«Che belli!»
«Che ship!!»

Che nausea.

Come la peggiore delle ragazzine di dodici anni appena uscite dalla rottura con il fidanzatino della prima media, mi ero chiusa in casa senza voler vedere né sentire nessuno, dandomi malata con tutti. Probabilmente mi stavo trasformando anche in una cattiva amica, mentire a Celeste era strano e non mi faceva sentire a mio agio, ma non mi andava di far uscire dalla mia bocca la verità. Raccontare di essere stata presa in giro, ammetterlo ad alta voce, l’avrebbe solamente reso peggiore.
Avevo bisogno di abituarmi all’idea, prima, dopodiché avrei detto tutto a tutti.

Forse.

Nel frattempo mi facevo bastare le tisane calde che i miei genitori mi preparavano pensando che fossi febbricitante (probabilmente per via dell’aspetto orribile che avevo) e gli abbracci di mio fratello, che erano diventati molto più frequenti di quelli di ordinaria amministrazione.

E poi, altro che vedere dove vivevo, ringraziai di non averlo mai portato lì a casa, oppure avrei avuto la sua immagine impressa anche nelle pareti, come se non fosse sufficientemente difficile così.

Lo vedevo in ogni cosa, nel bel tempo che c’era fuori, che mi faceva pensare a come si illuminavano al sole le iridi muschiate dei suoi occhi, nelle lattine di Fanta di mio padre, nelle custodie dei videogiochi di Milo sparse per casa, nella pubblicità del suo profumo alla televisione.

E nel frattempo, era ormai arrivata la primavera, senza che io me ne rendessi conto, non avevo fatto il cambio dell’armadio e dormivo ancora con le coperte di pile, forse più per rannicchiarmici sotto e proteggermi dal mondo che per il freddo effettivo.

Quella sera posai gli occhi sulla strada quasi per sbaglio, mettendo in pausa le serie che stavo guardando sul computer perché mi stava facendo venire mal di testa stare appiccicata a quell’affare da tutto il giorno, e notai gli alberi muoversi, probabilmente grazie a quel leggero venticello tipico delle belle stagioni. Mi fece venire voglia di uscire, di farmi scompigliare i capelli da quella brezza, di sentirmi viva, libera e giovane come in fondo ero davvero.

Così infilai velocemente una maglia a righe che avevo rubato a mio fratello, le scarpe e raccolsi i capelli che mi cascavano disordinati davanti agli occhi in un piccolo chignon in cima alla testa.

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