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Un dolore improvviso mi riscuote dal torpore e istintivamente porto entrambe le mani sul punto dolente.
Per mia sorpresa e sollievo non sono più in un grattacielo abbandonato, ma in un bianco ospedale.

Ci metto poco ad accorgermi che una dolce signora preoccupata mi guarda «va tutto bene?» chiede.

Annuisco incerta non riuscendo a parlare.

Guardo per qualche istante la stanza dove mi trovo.
Le pareti bianche e spoglie, un cassetto grigio accanto al letto dove attualmente sono seduta con una sacca oramai vuota poggiata sopra, vari utensili sono disordinatamente posti su un carrello altrettanto bianco.
È questo ciò che noto prima di stendermi nuovamente e portare la mia attenzione sull'infermiera che non ha smesso di scrutare ogni mio movimento.

Vedendo i muscoli del mio viso rilassarsi, cordialmente mi sorride e ritorna a cambiare la sacca della mia flebo.

«da quanto sono qui?» mugulo ancora dolorante.

«da una settimana» afferma «l'hai passata alternando momenti di semicoscenza e incoscienza dovuti allo stress del trauma e agli antidolorifici somministrati» mi guarda dopo aver terminato la sua operazione «questo spiega perché non ricordi di essere arrivata qui o del tempo che vi hai trascorso»

Annuisco cominciando a fissare il soffitto.

«se vuoi vederli ci sono i tuoi cari qui fuori»

A quelle parole ricordo George e Gregor stesi in mezzo ad un mucchio di macerie, macerie provocate da un'esplosione.
Quel suono orribile mi ritorna alla mente e il senso di colpa per averli coinvolti in tutto questo mi tortura.

Mi limito ad annuire nuovamente mentre la osservo uscire dalla stanza e tornare pochi minuti dopo seguita da mio padre e mio fratello.
Felice di rivederli noto il braccio rotto di mio padre e le stampelle fra le mani di George.

La causa di quelle ferite sono io.
Io e nessun altro.

Li osservo avvicinarsi lentamente al mio letto con un espressione di sollievo sul viso, un debole sorriso mi si forma sulle labbra ed è allora che piccole lacrime cominciano a rigare il volto dei due uomini accanto a me.

«sto bene» sussurro cercando di rassicurarli.

«si amore, stai bene» fa mio padre stringendo la mia mano fra la sua.

Dopo ore passate a farmi domande sull'accaduto, domande che ottengono non molte esaustive risposte, finalmente la tensione si è spenta e la conversazione prosegue più allegramente.

«sai, Jason è venuto qui praticamente tutti i giorni» mi sussurra all'orecchio George.

«ho capito, vado via così potete continuare a nascondermi delle cose» sentenzia mio padre prima di baciarmi la fronte ed uscire dalla stanza.

Guardo mio fratello «è stato lui a trovarti ferita ai piedi di un grattacielo, era terrorizzato mentre svenuta eri fra le sue braccia»

Lo guardo per un lungo istante prima di cominciare a pensare a lui, a come mi ha salvato la vita, a come si è fidato di me, a come si è aperto con me la notte che ha preceduto il disastro.

«dov'è?» chiedo seria.

George fa spallucce «è rimasto sempre fuori dalla stanza a guardarti dormire»

«tipico» sussurro accennando un debole sorriso ricordando le parole del mio assalitore.
Per quanto brutte fossero le circostanze, quello che mi ha detto su Jason e su come vegliasse giorno e notte su di me mi rende felice.
L'avessi saputo prima sarei rimasta tutte le notti sveglia per poterlo anche solo guardare.

«ti ha lasciato questo però» dice porgendomi un bigliettino accuratamente piegato.

«cos'è?» chiedo afferrandolo.

Fa spallucce «mi ha chiesto di non leggerlo, era destinato esclusivamente a te» lo guardo e poi poso il pezzo di carta sul comodino accanto al mio letto.

«non lo leggi?» chiede.

«se vuole dirmi qualcosa deve farlo di persona» sentenzio.

Dopo avermi spiegato quanto brutto è stato risvegliarsi tra le macerie senza avere la minima idea su cosa fosse successo o su dove fossi, mi bacia la guancia, mi mima un "ti voglio bene" ed anche lui lascia la stanza, lasciandomi sola in balia dei miei irrequieti pensieri.

***

Sono passati pochi giorni dal mio effettivo risveglio e per di più le giornate le ho passate alternando futili discorsi con George e Gregor, domande della polizia e cure terapeutiche.

Finalmente dopo circa quattro giorni il mio medico curante mi informa che la mattina successiva avrebbero permesso a me e la mia famiglia di ritornare a casa.

La felicità di quel momento sfuma in fretta ripensando in quali condizioni dovesse ora trovarsi la nostra casa e, in tutto quel casino, inevitabilmente la mia mente mi porta a Jason.
Nonostante George mi avesse informato più volte della sua presenza non l'ho più visto, almeno fino alla sera prima della mia dimissione dall'ospedale.

«hei» saluta un po' troppo sottovoce il ragazzo fermo alla porta.

Lo guardo, ma non parlo.

Cominciando a giocare distrattamente con le mani cautamente si avvicina a me osservando ogni piccolo dettaglio del mio viso.

«ho saputo che domani ti dimetteranno» constata continuando a cercare qualsiasi movimento del mio viso.

Mi limito ad annuire e a portare la mia attenzione alla finestra poco distante dal letto.

«lo so che sei arrabbiata» inspira «per il casino in cui ti ho trascinata» butta fuori l'aria.

Sento la rabbia salirmi fin sopra i capelli e continuando a guardare la finestra mi limito a sussurrare «non hai capito niente»

«cosa?» mi guarda confuso.

«sono arrabbiata perché neanche per un giorno sei venuto qui da me a chiedere quale fosse lo stato del mio umore ed hai lasciato una stupida lettera che non leggerò mai» questa volta lo guardo negli occhi «mi hai lasciata da sola a raccogliere i pezzi»

Sentite quelle parole velocemente si avvicina a me, alle mie labbra e mi bacia.
Il suo sapore è sempre lo stesso e il suo profumo mi era mancato terribilmente.
Nonostante la rabbia non riesco a non ricambiare quel bacio così tanto desiderato, nonostante tutto, lo desidero ancora.
Interrompe quel bacio solo per sussurrare sulle mie labbra «ho avuto paura, così paura» per poi ricominciare a baciarmi.

Quel bacio dolce, frenetico e che entrambi desideravamo terribilmente.

«però non posso» si sposta da me e piano si allontana «capisci che non posso?» chiede fissando i suoi occhi nei miei.

«perché?» quasi urlo.

«guardati, sei in un letto di ospedale, la tua famiglia è in ospedale ed è colpa mia» gli si spezza la voce «i-io non posso» balbetta.

Avrei voluto parlargli, rassicurarlo, dirgli che non è colpa sua, che la scelta migliore non è allontanarsi da me.
Avrei voluto urlargli che non è così che mi proteggerà, eppure mi limito a guardarlo, senza contraddirlo o asseconderlo.
Probabilmente anche lui avrebbe voluto dicessi o facessi qualcosa, ma per qualche motivo in quel letto d'ospedale non riesco, le mie labbra non riescono ad emettere alcun suono.
Ho già causato troppi problemi alle persone che amo per riuscire anche solo a far andare bene le cose, è troppo pericoloso, per lui e per la mia famiglia.

Una lacrima gli riga il volto e dopo avermi guardata per qualche istante va via, lontano da me, lontano da noi.

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