don't look for me

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Appena misi piede nell'ingresso della Avengers Tower, il calore confortevole del climatizzatore mi travolse all'istante, facendomi sospirare di sollievo.

Da quando avevo lasciato il cimitero, non aveva mai smesso di nevicare. New York non vedeva una nevicata del genere da parecchio, suppongo.
La mia sfortuna fu quella di non avere un cappello, tantomeno un ombrello con cui ripararmi un po', perciò rinunciai al tentativo di camminare soltanto sotto le tettoie e preferii bagnarmi con la neve che si posava sui miei capelli e sui miei indumenti.
Poi avevo preso un taxi, e quindi non c'era più stato bisogno di inveire contro l'acqua ghiacciata.

Nella lobby della Torre era spuntato un enorme albero di Natale, ricco di decorazioni rosse e dorate che vivacizzavano l'ambiente così formale; la stella posizionata in cima era molto luminosa, così tanto da brillare quasi come una stella vera. Se la fissavi troppo a lungo, rischiavi di vederci tutto nero quando avresti distolto lo sguardo.

Qualche trovata ingegnosa di Stark, sicuramente.

"Buona Vigilia di Natale, Caporale Wyatt." annunciò la voce di Jarvis, attivando l'aria calda da sotto i miei piedi, che asciugò in un attimo il cappotto.

"Grazie, Jar. Anche a te." ricambiai, sorridendo divertita e chiamando l'ascensore, con l'intenzione di dirigermi in camera.

Anche il silenzio dell'ascensore super tecnologico era stato sostituito dalla melodia di «It's Beginning to Look a lot like Christmas», accendendo ancora di più il mio spirito natalizio.

D'altronde, non festeggiavo un Natale da quanto? Quasi ottant'anni?
I giorni erano tutti uguali al complesso, non ti accorgevi neppure delle festività che passavano e del tempo che trascorreva.

Ero uscita molto presto quella mattina, circa alle sette, e dopo essere stata al cimitero non avevo passato molto tempo a fare compere, perché avevo già delle mezze idee su che regali fare a ognuno degli Avengers.
Per l'ora in cui rientrai alla Torre, potevano essere state al massimo le undici.

Quando le porte si aprirono, percorsi il corridoio e sgusciai nella stanza silenziosamente, per non svegliare Bucky che stava ancora dormendo. Non volevo disturbarlo, aveva passato quasi tutta la notte sveglio per colpa degli incubi ed io avevo passato altrettanto tempo con lui per rassicurarlo e confortarlo.

Riposi le buste in un anta vuota dell'armadio e rimandai la scrittura dei bigliettini a dopo, quando avrei terminato la mia doccia bollente.

Presi un ricambio, mi tolsi i vestiti e mi fiondai sotto il getto di acqua calda, che colpì il mio corpo senza pietà. Dopo anni passati al freddo della Siberia e della Russia, il calore era l'unica cosa di cui avevo davvero un bisogno irrefrenabile.

Dopo essermi anche lavata i capelli, uscii dalla doccia e mi avvolsi in un asciugamano pulito, spannando lo specchio con una mano e guardando il mio riflesso; non avevo una bella cera. Feci un passo indietro e riuscii a scorgere il punto preciso dove il proiettile di Schulz si era andato a conficcare, nella mia pancia. Per colpa di quella maledetta pallottola che non permetteva alle mie cellule di riformarsi correttamente, degli insopportabili crampi di lunga durata mi attraversavano l'addome -anche dopo la cicatrizzazione-, lasciandomi senza fiato e rischiando di farmi svenire. Come se non bastasse, i miei poteri si erano prosciugati per colpa dello sforzo che avevo impiegato per distruggere quell'edificio, quindi adesso dovevo fare i conti con altrettanti crampi che intorpidivano i nervi delle mani.
Quando avevo detto tutto a Bruce, lui non aveva esitato a prescrivermi delle pillole che alleviassero il dolore; tuttavia, si raccomandò di essere cauta e di rispettare le dosi che mi aveva scritto; quel farmaco, il Vicodin, era una vera e propria droga che creava una forte dipendenza.

𝒕𝒉𝒆 𝒆𝒏𝒅 𝒐𝒇 𝒕𝒉𝒆 𝒍𝒊𝒏𝒆 [✓]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora