La creatura

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A quell'epoca, la morte non viveva ancora nell'anonimato e la si poteva vedere e annusare dappertutto mentre divorava anime che ancora non avevano avuto nemmeno il tempo di peccare.❞

Carlos Ruiz Zafòn


Veera ha le allucinazioni.

Greg, il suo migliore amico, le ha procurato degli acidi. Quei cartoncini dal sapore amaro sono il mezzo attraverso cui Veera è certa di poter trovare se stessa.

La musica è troppo alta e le casse hanno una qualità terribile; i bassi graffiano, stridono. Al soffitto sono appese delle luci colorate che continuano a spostarsi, psichedeliche, e Veera non riesce più a seguirle. 

Le gira la testa, ha bisogno di vomitare. Ha perso Greg da un pezzo, ormai; l'ha visto allontanarsi con una ragazza, è felice che almeno uno dei due si stia divertendo a quella festa del cazzo.

Anche Veera vorrebbe avere qualcuno con cui passare il tempo. Va alle feste proprio per ottenere del sesso veloce, divertente, e poi sparire nel nulla perché non vuole una relazione seria, usa soltanto i ragazzi perché impegnarsi le costerebbe il fegato. Odia le dichiarazioni smielate, ma il sesso le piace, è adrenalina pura.

Veera vede soltanto ombre informi, rantoli di sogni soffusi nel nulla. Si è fermata di fronte al suo riflesso e ha guardato a lungo nella lastra di vetro, fissando quell'immagine, pasticciandosi il volto con le mani e distorcendolo di proposito per vederlo sciogliersi. Le pupille sono dilatate, il suo sguardo è più buio di una notte priva di stelle. I capelli scuri hanno formato una cornice amorfa intorno al volto dai tratti efebici, colmo di curve morbide, quasi pennellate di un pittore inesperto e incapace di bilanciare con la giusta attenzione le luci e le ombre. Chiunque l'abbia creata ha esagerato con il nero, eppure solo nel suo sguardo è racchiusa la vera essenza di sé, quell'animo torbido, intricato, da scabroso fiore del male. Veera è cupa come una poesia di Baudelaire.

Distoglie lo sguardo dalla sua immagine, il mondo è una macchia piena di colori e non sembra voler smettere di muoversi rapsodico.

Ha bisogno di prendere aria.

Il tempo, fuori dalla villa di Lindsay, è gelido. Non è una sua amica, è solo una conoscente, ma questo le permette di essere presente a quella serata terribile. Forse preferirebbe non esserlo.

Non sa perché si costringe ad andare alle feste, se nemmeno le piacciono. Acconsente solo perché Greg le promette che sarà uno sballo – e, in effetti, non ne esce mai sobria e stabile sulle sue gambe, ma non è comunque divertente. Forse accetta solo per sfamare il suo bisogno di conoscere qualcuno, chiacchierarci, finirci a letto e poi mandarlo a fanculo dopo avergli scroccato una sigaretta e un orgasmo. 

Si aggrappa al cancello in ferro, il suo corpo non è più in grado di sostenerla. Ha percorso in fretta il giardino, l'erba è stata tagliata da poco e fuori casa non c'è nessuno. Fa freddo, è un gelo che atrofizza il cuore, non la sorprende che non ci sia neppure un'anima lì.

Il vento le mette in disordine i capelli, ma l'aiuta anche a risvegliarsi da quello stato quasi catatonico.

Apre gli occhi, respira piano e in modo profondo, le dita sottili e circondate di svariati anelli d'argento si aggrappano con più forza al metallo. Strizza le palpebre, cercando di guardare meglio nel buio oltre le sbarre, e capisce di non essere sola.

Un ringhio animale interrompe l'atmosfera placida; si è spostata dal salotto, quindi la musica non è più molto intensa e può udirlo appena, mescolato con le note stonate che giungono da lontano. Veera spalanca gli occhi, cerca di vedere meglio nell'oscurità, ma con scarsi risultati. Alza le pupille dilatate sui lampioni fuori dalla villa, non sa perché sono spenti. Veera ricorda che quando è arrivata erano accesi. Li fissa intensamente, fino a quasi consumarsi gli occhi, finché all'improvviso uno dei due, quello a sinistra, si accende; lampeggia intermittente per un po', poi la luce si ferma. Sposta lo sguardo sulla strada e un brivido le percorre la spina dorsale.

Una figura informe, grottesca e terrificante, è rannicchiata sul corpo squarciato e senza vita di una donna abbandonata sull'asfalto. Veera vede le sue dita, sono lunghi artigli ossuti; più in alto, le sue braccia sono scheletriche, sembrano fatte soltanto di ossa, prive di pelle e muscoli. È una figura inumana, eppure ha tratti da persona comune, ma deviati. Ha il cranio spoglio di capelli, ma tondo, e solcato da vene violacee che disegnano mappe di luoghi che non esistono. È mostruoso, è informe; alza il volto, che ha affondato all'interno dell'addome della ragazza per cibarsi della sua carne. Le labbra sono sporche di sangue e Veera vede il mostro masticare mentre quegli occhi bui si fissano su di lei, si immobilizzano sulla sua figura. 

Rimane ferma, pietrificata dalla paura; non riesce a muoversi, né a urlare. I suoi muscoli sembrano aver disconnesso ogni contatto con il cervello.

Si ripete che quella è solo un'allucinazione, non può essere altrimenti. Non esistono creature del genere, con la spina dorsale deviata e informe, con i denti affilati e lunghi, zanne inumane; non esistono esseri umani con quegli occhi. Non sono occhi, sono bulbi vuoti, privi di iridi, di pupille. È come se qualcuno li avesse rimossi via con un cucchiaio, ma con il tempo si sono cicatrizzati e hanno smesso di sanguinare. La creatura si alza in piedi; ha una grossa gobba sulla schiena, come se portasse sempre con sé uno zaino molto pesante. Le sue braccia sono lunghe, così come le gambe; è altissimo e Veera deve sollevare il mento per continuare a fissarlo.

Vorrebbe correre via, vorrebbe urlare, ma il suo corpo non vuole muoversi. Non riesce nemmeno a staccare le dita dal metallo gelido, è come se lui la stesse inchiodando lì con quello sguardo vuoto, obbligandola a rimanere immobile.

Una voce invadente si intrufola nella sua mente. Non è un pensiero che proviene da dentro di lei, non è causato dagli acidi. È un sussurro inquietante, basso, inumano.

«Veera», sembra chiamarla, e lo fa a ripetizione, almeno cinque volte, mentre Veera rimane ferma, congelata sul posto, incapace di far eseguire al corpo i suoi comandi. «Veera, non pensi che sia arrivato il momento di venire con me?»

Veera deglutisce. Deve parlare, deve urlare, deve scappare via. «Non posso venire con te, tu non esisti.»

La creatura sembra adirarsi a quelle parole. Si avvicina al cancello, è veloce, troppo. Non le lascia neppure il tempo di un respiro. Non è un umano, non può essere reale.

Veera sa che quello è un bad trip, nient'altro. Non deve avere paura, non può farle male. Non è reale. 

Sono divisi come Clarice e il dottor Lecter dall'altro lato del vetro, e questo dovrebbe farla sentire al sicuro, ma non è così. Il terrore è pura follia che si coagula nelle vene. C'è sempre il rischio che lui riesca a superare quell'ostacolo e azzannarla.

La creatura ride, è un verso agghiacciante. «Non ancora, Veera. Non ancora.»

La morte non dormeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora