Capitolo 28.1

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Capolinea

La fine assidera le apparenze come il freddo del Mare Artico, con formazioni di ghiaccio che galleggiano nelle sue acque bianche, in un incanto che congela il respiro. La fine ha un paio di occhi neri, sotto l'ultima neve del Nord, mentre mi guarda da vicino.

Era di Calcedonio, il muraglione dietro cui il ragazzo aveva continuato le sue attività quotidiane, il giorno seguente, ponderato e laborioso, in prossimità di un distacco che raspava tra noi come uno sparviero.

Le poche parole che mi aveva concesso mentre assemblava steli si erano marmorizzate in una pedana da cui la sua volontà era fuggita in sella a una groppa nera. Veloce, instabile.

In tono sommesso, Elias mi aveva ripetuto quello che avevo già sentito dalle sue labbra opaline nel corso della mattina, forando ancora una volta il mio petto con una freccia trabalzante.

Era entrato alla Bottega per fare esperienza, ma aveva sempre avuto in testa il fragore di una idea solo sua, che lo potesse portare a gestire il suo sapere sui fiori in modo autonomo.

Così aveva girato la sua clessidra, incurante della nostra conoscenza, e adesso una sabbia color piombo e argenti di luna irraggiava un brillio attraverso il vetro, proiettando scacchiere di domande e fobie sulle valvole del mio cuore.

Ero sicura che Elias sarebbe stato un grande fioraio pure senza la Berti, senza di me, il suo modo di curare le piante era stato ribelle ed empatico fin dal principio, eppure aveva versato lacrime buie a Monte Isola, Lapislazzuli tetri al cielo, che avevo visto soltanto io, e che non riuscivo a falsare.

La sua stringata spiegazione era un siero che mi era stato iniettato a forza, e per quanto ottenebrasse la mia lucidità, non riuscivo ad arrendermi al suo effetto, nei pensieri resistevo al suo significato.

Il ragazzo si stava preparando a uscire, girandosi uno sciarpone intorno al collo, grigio come l'aria montana carica di fiocchi il giorno in cui l'avevo conosciuto, e dopo esserselo sistemato fino al mento, notò che io mi ero affrettata a infilarmi la giacca.

Non riuscii a sorridergli, anche se avrei voluto, mi sentivo in un surriscaldato imbarazzo per non aver perso la volontà di capirlo, per quei passi che stavo facendo nella sua direzione, nonostante il no che affiorava dalle ciminiere dei suoi occhi.

Era una delle ingrate sere che mi restavano, era come se dentro di me, irascibilmente, sentissi che lui mi doveva qualcosa, un sospiro, una parola, un gesto, qualsiasi parte di sé prima di spingermi nel suo vuoto.

Mi fermai al suo fianco, spaurita per la sua tumultuosa occhiata, drupa nera di Sambuco, annebbiante, con la durezza del rovere, e aprendo la porta sul centro di Firenze, la tenni per entrambi con finto autocontrollo, sperando che mi avrebbe assecondata, che facessi così pena da sfumare il suo subitaneo rifiuto in un debole sì.

Elias rimase immobile, una lapidea scultura in creta, a guardarmi la gola pulsante, come se potesse contare uno a uno i respiri che mi stava facendo scivolare via per la sua attesa consegnandoli al buio, poi oltrepassò la soglia, sussurrandomi un "andiamo".

Il suo fiato si era disperso dietro di lui, regalo intimo per la notte in cui stava entrando, o da cui forse non era mai uscito, mentre si era incamminato, con le mani nelle tasche, per la via, consapevole che lo avrei seguito.

La sua schiena era curvata leggermente in avanti, a trattenere il tepore della sua giacca, o ad allontanarsi dall'ombra che i lampioni allungavano alle sue spalle fino ad accarezzare la mia.

«Me lo avevi pure detto.» feci uscire la voce, in un tremolio di emozione, mentre percorrevo una strada di ricordi, che ondeggiava come un acquatico tappeto sul marciapiede che conduceva alla fermata degli autobus. «Che tutto sarebbe stato diverso.»

Saiph - La mia stellaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora